domenica 9 dicembre 2007

UN ALTRO PIU' SOAVE PROFUMO.

Quando con le mie cinque pecore passai da casa di Berto, per andare insieme al pascolo, vidi che ad aprire la stalla quella mattina c’era la Pina, la sorella minore. E prima che avessi modo di domandare, fu la mamma che dalla finestra su di camera (stava rifacendo i letti) mi disse: “Berto è impegnato nella raccolta del grano giù nella pianura di Luni; sono venuti a chiamarlo improvvisamente ieri sera; ce ne avrà per un pezzo; al suo posto viene la Pina”. Senza Berto mi sentii solo. Passare il tempo in compagnia di quella... E a fare che? Mi sarei messo a piangere. Lei intanto... Sentivo dentro la stalla la sua voce che radunava le pecore, sei, per indirizzarle verso l’uscita. E poco dopo vidi le pecore uscire in bell’ordine, una dietro l’altra. Per ultima uscì la Pina. Che, chiudendo, mi guardò e mi salutò: “Oh, Sereno, buon giorno!”. E anch’io la salutai e la guardai. La guardai, per vedere se potevo scoprirle addosso quella scemenza di cui parlava sempre Berto. “Mia sorella è scema”, diceva; “Già tutte le ragazze... Anche la Pina non capisce niente”. Per Berto la stupidità della sorella, e delle altre ragazze, era una verità a priori; era vero, in quanto lui lo pensava e lo diceva.

Comunque, guardai la Pina, mentre usciva dalla stalla, la guardai bene, e di scemenza addosso non riuscii a vedergliene. Vidi invece altre cose, che non avevo mai notato prima nelle femmine. Vidi che aveva i capelli tirati dietro in due lunghe trecce, fermate in fondo da due vistosi fiocchi rossi. Vidi che aveva gli occhi limpidi; e un viso gentile; e un sorriso luminoso: il sorriso con cui mi aveva salutato. Vidi il golfino verde che indossava e, fermata ai fianchi, la gonnellina marrone che le arrivava sotto le ginocchia; e che era scalza, come del resto anch’io. Vidi che aveva a tracolla una borsa di pezza e in mano una verga con cui guidava le sue pecore.

Poi i due gruppi di pecore si avviarono nella fresca chiarità del mattino estivo; e noi, io e la Pina, dietro. Prima di uscire dalla Porta del borgo, mi chiese: “Dove andate di solito con Berto?”, “Un po’ dappertutto. Questa mattina s’era deciso per l’oliveto della Geltrù”.

Oltre la Porta (eravamo quasi alla fine di giugno ed era di mattino abbastanza presto) ci apparve il cielo in tutto il suo splendore e l’azzurro del mare pieno di luce, in tutta la sua vastità. Le rondini erano già nel loro gridato affaccendarsi in un incessante andirivieni fra la gronda in alto della scuola e l’aperto spazio sopra la valle.

Nel pianello solo una donna, che, uscita dalla ‘volta’ della fontana, procedeva con in capo il suo bacile pieno d’acqua. Incrociandoci all’uscita della piazza, ci disse: “Andate già a guardare!?”. E proseguì, per entrare in paese.

Andando la Pina disse, con orgoglio: “Anch’io so già portare in testa. Ogni tanto faccio le prove con il bacile pieno a metà, in giro attorno al tavolo di cucina. La mamma mi dice che già vado bene”. “Ma i maschi non portano in testa”, dissi io, “Non è roba da maschi”.

Giunti alla ‘gabina’, si entrò nella via nuova. Ora andavamo lungo il ‘pianón’. Io ripresi il discorso: “Come i giochi che fate voi femmine quassù nel ‘pianón’ o nel sagrato della chiesa... Per un maschio non sono adatti...”. E lei assentiva e mi guardava con negli occhi la luce dell’ammirazione, come di fronte ad un essere troppo superiore a lei, che era semplicemente una femmina, mentre io ero un maschio; e che, inoltre, era più piccola di me, che avevo tredici anni e lei ne aveva undici.

I giochi delle bambine... Quando ne parlavo, una significazione di disprezzo era nel tono della mia voce e nell’espressione del mio viso, come di fronte a cosa troppo indignitosa. I nostri giochi, invece... Quanto erano più nobili e come dimostravano il nostro coraggio! Il maschio, infatti, è nato per avere coraggio; la femmina è nata per essere timida e per avere paura.

Con Berto, per esempio... Berto sì che era coraggioso! Con Berto, quando arrivavamo nella piazza della chiesa o altrove nel paese, dopo essere stati tutto un pomeriggio nei boschi a caccia di nidi e di serpenti; che avevamo scalato olivi e castagni e pini e querce e olmi e ci eravamo introdotti in anfratti di rovi e avevamo distrutto nidi e avevamo catturato implumi destinati a morire; e avevamo catturato bisce e le avevamo uccise e le portavamo in giro appese ad un bastone e avevamo nel sangue la passione della forza bruta del maschio e della prepotenza… Quando poi arrivavamo nella piazza o dov’erano esse, le ragazze, che giocavano alla ‘parentè’ o ad altri giochi di femmine; noi, per ostentare anche con loro la nostra forza e la nostra brutalità, entravamo nel mezzo alle femminili costruzioni e gettavamo fra loro i serpenti e gli uccelli morti, scompigliando ogni cosa e terrorizzando; e loro, di fronte all’oltraggio, reagivano solo strillando e fuggendo e chiedendo aiuto alle mamme; le quali, in fondo, parteggiavano per noi maschi: “Siete voi sceme ad avere paura: loro, lo sapete, sono maschiacci”; e noi ci sentivamo forti, ci sentivamo degli eroi; e pensavamo che catturare degli implumi, distruggerne i nidi e farli morire per gioco; e pensavamo che catturare serpenti e poi ucciderli e poi andare in giro a terrorizzare le bambine nostre coetanee e a distruggere i loro giochi fossero imprese ammirabili.

Intanto eravamo giunti al ‘Colletto’ e stavamo per imboccare la montata che scende giù a Isola. Le pecore avanti divise in due gruppi, la Pina procedeva accanto a me in silenzio. Ogni tanto mi guardava, quasi volesse da me la conferma che tutto andava bene. Anch’io ogni tanto la guardavo; guardavo la semplicità e l’accuratezza con cui era vestita; guardavo la sua personcina agile e armoniosa, guardavo la grazia e la sveltezza dei suoi piedini di ragazza e l’eleganza con cui camminava scalza; e guardando facevo i miei confronti fra lei e il fratello Berto: quei suoi piedacci di maschio grossi e sgraziati, che quando camminava li posava giù forti e pesanti, che sembravano le zampe di un elefante; e poi come andava vestito: sempre unto stracciato e sbrindellato; e sporco nella persona, che non si lavava mai; con quei capelli folti e arruffati, che non conoscevano né acqua né barbiere. “Si lavano le ragazze, perché sono vanitose e vogliono apparire”, diceva. Ed io non ero meno sordido di lui; perché, più piccolo, guardavo a Berto come ad un mio maestro e seguivo con entusiasmo i suoi consigli e i suoi insegnamenti.

Le chiesi: “Tu ti lavi al mattino?”; “Perché, tu non ti lavi?”. Mi vergognai a dirle di no; che solo raramente mi lavavo; solo quando me lo ordinava la mamma; oppure se era lei che, di forza, mi prendeva e mi lavava il viso. Ma la Pina, senza aspettare la mia risposta, disse: “Io mi lavo, usando il sapone palmolive. Non si sente?”. Forse l’afrore delle pecore e mio coprivano il profumo della Pina. Dissi: “Con le pecore non si sente; ma aspetta...”. Le andai di fronte; la tenni ferma con le mani per le spalle; accostai il mio viso al suo viso; e annusai: un profumo di fresco come di fiori in primavera. “Si sente”, dissi in tono indifferente. Ma quel suo viso di femmina così vicino al mio, quei suoi occhi profondi e pieni di luce, quel suo taglio della bocca delicato di ragazza, quel suo respiro caldo e che sapeva di buono... io, mi parve di sentire anche un altro profumo, oltre quello del sapone palmolive, un profumo più intenso e più soave... Certo, andare al pascolo con la Pina non era la stessa cosa che andare al pascolo con Berto.

Sulla curva del Colletto la Pina passò avanti per guidare le pecore giù per la montata. Poi alla prima svolta della via, dove nell’angolo c’è il sedile in pietra, con al di sopra, in un’edicola pure in pietra, l’immagine in marmo bianco della Madonna con il Bambino, mi aspettò. Disse: “Qui fa sosta la gente, quando vengono su da Isola con in collo il loro carico e sono stanchi”. Poi aggiunse, guardando alla figura della Madonna, “E intanto che si riposano, dicono una preghiera”. E anche lei si fece il Segno della Croce. E indugiò a guardare alla Maestà, che, nella chiarità del mattino, splendeva candida sul grigio smorto delle pietre. Le

pecore, non sentendo la presenza itinerante della loro pastorella, si erano fermate. Poi mi chiese: “Tu le dici le preghiere?”, “Qualche volta. Quando mi ricordo”. “Io sì, prego. Le so quasi tutte a memoria. E alcune le so anche in latino, l’‘Ave Maria’ per esempio. “E dove le hai imparate?”. “Nel libretto delle ‘Massime eterne’. Era di mia madre quando ha fatto la prima Comunione. Lo porto spesso con me… Io prego alla sera prima di mettermi sotto nel letto e al mattino quando mi alzo. E’ don Tito che ci ha raccomandato di pregare... Per non fare peccati e per non commettere atti impuri”. “Anche a noi ragazzi ha detto degli atti impuri... Ma cosa sono gli atti impuri?”. “Io gliel’ho chiesto; ma lui ci ha detto che non lo dobbiamo ancora sapere, perché sono troppo brutte cose; sono il diavolo in persona, coperto di peli neri, con il muso e le zampe di caprone, con le corna, la coda, il forcone e tutto quanto”. “.

Intanto avevamo ripreso a scendere. Al bivio lì vicino ci immettemmo nella via verso il Cantinón. Poco oltre, si entrò a sinistra nell’oliveto della Geltrù. Sembrava di essere in un paradiso terrestre: piante alte e ombrose; le piane, ampie e ben modellate, erano fresche ed erbose; le pecore subito furono intente a brucare. La Pina si mise a sedere sull’erba e si tolse la borsa da tracolla: la posò per terra accanto a sé. Io mi tolsi dalle tasche dei calzoni il pane della merenda; lo posai vicino alla borsa della Pina. Anche lei tirò fuori il suo pane... Assieme al pane , tirò fuori anche un libretto dalla copertina nera, della forma di un libretto di preghiere. Disse: “Sono le ‘Massime Eterne’, che ti ho detto: io me ne servo per le devozioni; ma mi serve anche come libro in cui mi esercito a leggere. Molte cose sono in italiano; io leggo quelle; però certe parole non le capisco; come quando qui dice dell’invocazione per gli ‘agonizzanti’”. E aperse il libro alle prime pagine e lesse con la sua limpida voce di ragazza, compitando e incespicando: “‘O san Giuseppe, padre putativo di Nostro Signor Gesù Cristo , e vero sposo di Maria Vergine, prega per noi e per gli agonizzanti di questo giorno’. Chi sono gli agonizzanti? Lo sai tu?”. Io feci di no con la testa. Poi lei, posando il libretto, disse: “Io non so neanche che è un ‘padre putativo’; a mio padre dicono il babbo della Pina oppure il babbo di Berto; al tuo, il babbo di Sereno; ma padre putativo della Pina o padre putativo di Sereno, non l’ho mai sentito…”.

...Poi, anch’io mi misi seduto, accanto alla ragazza. Guardavamo in giro stupiti di fronte alla luce, ai colori, alle voci, ai profumi di quella limpida mattina dell’incipiente estate nicolese. Un po’ parlavamo, un po’ facevamo silenzio. Le pecore intanto brucavano tranquille lungo le piane e nei poggi..

E fu lei che ad un certo punto esclamò: “Forse lassù c’è un nido!”, e mi indicò in mezzo all’infrasco di un olivo una macchia scura. “Sì”, dissi io, “dev’essere un nido. Ci guardo”; E subito, trasportato dalla mia passione di cacciatore vandalo, salii. Dissi da sull’albero: “Sono tre. Tre uccellini”; “Lasciali stare. Non li disturbare”. Non ce la feci a dar retta del tutto alla Pina; fu più forte di me; ne presi uno, me lo misi in tasca. “Te ne porto uno, a fartelo vedere”. Lo portai giù, a farlo vedere alla Pina. La quale, seduta com’era, lo prese, riunendo le due mani a coppa. Poi se lo mise in grembo. Era ancora implume; non si reggeva sulle zampine; aveva gli occhi chiusi; solo, ogni tanto, apriva l’enorme bocca, mostrando di essere, per il momento, tutto gola e tutto stomaco. “Ha fame!”, disse la Pina. E tenendolo maternamente nel grembo, lo accarezzava e lo proteggeva con le due mani; e gli parlava e gli sorrideva. Io che nella mia amicizia con la selvatichezza e la rudezza di Berto, il cui viso sembrava l’avesse per essere sempre aggrottato e adirato e le mani per abbrancare rompere e distruggere, io non avevo mai ancora notato la dolcezza del viso, né la grazia delle mani di una ragazza. E nella mia rusticità, mi trovai incantato ad ammirare quella soavità nei gesti, nell’espressione del volto e nelle parole.

Poi, quando me lo riconsegnò, risalii sull’albero, a rimetterlo nel nido. E, mentre risalivo con in tasca l’uccellino, ero tutto rosso per la vergogna, perché pensavo alle risate di Berto, che si sarebbe fatte, nel vedere questo mio comportamento da femminuccia, io che ero un maschio; e che dovevo essere cinico e indifferente.

Il giorno dopo, quando passai a chiamare la Pina e lei uscì fuori della stalla e mi salutò, poi, unendosi a me, disse: “Che profumo questa mattina, Sereno!”. Io diventai rosso fino alla punta delle orecchie e non dissi niente. Ma per aggiustarmi la testa e per presentarmi alla Pina nell’aspetto più gradevole possibile mi ero lavata la faccia e con la tricofilina che avevo sottratta al babbo, mi ero ben untati i capelli, che avevo ispidi e incolti di selvaggio.

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