venerdì 7 dicembre 2007

IL GIOVANE DEL COLLE.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare

(Giacomo Leopardi. L’infinito).

C’era una volta un giovane Poeta, che amava recarsi sopra un colle, che era vicino al suo palazzo. E su questo colle lui era quasi sempre solo. E, così solo, sedeva su un rustico sedile. E su questo sedile, un po’ restava assorto a vedere in sé; e un po’ cercava di guardare il panorama, che, oltre la siepe, si stendeva lungo una sequenza di brune montagne fino là in fondo, fino all’azzurro del mare. Ma c’era la siepe; e il giovane non poteva vedere. Ma non importava. Perché lui c’era abituato. Era abituato a vedere soprattutto con gli occhi della fantasia. Vedeva lontano nello spazio, con gli occhi della fantasia, e vedeva lontano nel tempo. Ma anche le cose vicine e del presente lui le vedeva più con gli occhi della fantasia che con gli occhi della realtà: quel giovane nobile, dalla fronte spaziosa e piena di pensiero e di sogni, che aveva gli occhi malinconici e dolci; e il corpo lo aveva gracile, ma l’anima potente e immensa... Dunque, la siepe non gli permetteva di vedere. Ma lui, raccolto in sé, vedeva ugualmente; e vedeva anche di più: vedeva, oltre la siepe, ‘interminati spazi’, ‘sovrumani silenzi’, ‘profondissima quiete’: una visione che quasi gli spauriva il cuore... Ma poi, a riportarlo alla realtà da questo viaggio nell’eterno, un respiro di vento; e sopra di lui le fronde su le piante, che stormiscono un rumore improvviso e passeggero: il contingente nel seno dell’eterno. E allora questo giovane, abituato a pensare e a meditare, anche da questa voce trae la sua morale; trae la religione per la sua vita e trae le fantasie per la sua poesia. Che cos’è, infatti, questa voce se paragonata con l’eterno? Questa voce è l’uomo ed è la sua storia, tutta, compresa quella presente, con i suoi clamori e le sue passioni; è l’uomo che, di fronte all’infinito e all’eterno, è come questa voce di vento in mezzo alle fronde, fragile, che subito c’è e subito non c’è più, è passato; si è annullato nell’infinito; è diventato sovrumano silenzio; è diventato, direbbe un altro Poeta, ‘silenzio e tenebre’...

E anche per il giovane Poeta del colle: di fronte a questo infinito e a questo eterno, c’è il suo scomparire, il suo naufragare; che per lui è dolce; perché è come dormire, e non sentire più la vita; è come morire...

Tra il 3 e il 5 di agosto del 2005.

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