Poi, gli anni a venire sono anni bui; siano gli anni ormai
delle 'Operette morali'. C'è
un periodo di gelo nel suo cuore; un periodo in cui non
fiorisce più la poesia. Solo pensiero. Solo meditazione e
filosofia. Ma sotto il gelo la terra è fertile, è calda, è
pronta per germogliare di nuovo: al primo tepore di nuova
primavera. E infatti in un suo soggiorno a Pisa (forse, a
creare il nuovo fiorire della primavera, il sorriso di una
donna) il poeta torna a sperare, torna a cantare. E abbiamo
l'esplosione, abbiamo il sublime Leopardi. In cui c'è la
sintesi a priori della profondità e della sincerità,
dell'inclemenza anche, del pensatore e della grandezza del
poeta. E abbiamo Il risorgimento, Pisa 1828; A Silvia,
Pisa 1828. E subito dopo, a Recanati, abbiamo Le
ricordanze, 1829; il Canto notturno, che è del 29/30;
abbiamo La quiete dopo la tempesta, e Il sabato del
villaggio, del 1829. Sono i famosi grandi idilli. Sono
canti dedicati all'amore, alla speranza, alle illusioni. E
alcuni di loro sono il risultato di un cuore che ancora
palpita e che ancora crede e spera nell'amore. Nonostante la
consapevolezza della dura realtà. I versi per Silvia, per
Nerina, per la 'donzelletta', che sono fra i più bei versi
d'amore della nostra letteratura, nascono
dall'idoleggiamento dell'eterno femminino; nascono da un
cuore pieno d'amore, un cuore in piena suggestione del
fascino femminile e che ancora spera nell'amore. Come
dimenticare i versi dedicati a Silvia? "Silvia, rimembri
ancora/ Quel tempo della tua vita mortale,/ Quando beltà
splendea/ Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,/ E tu, lieta
e pensosa, il limitare/ Di gioventù salivi?/ Sonavan le
quiete/ Stanze, e le vie dintorno,/ Al tuo perpetuo canto,/
Allor che all'opre femminili intenta/ Sedevi...". Ed io
"D'in su i veroni del paterno ostello/ Porgea gli orecchi al
suon della tua voce,/... Mirava il ciel sereno,/ Le vie
dorate e gli orti,/ E quinci il mar da lungi, e quindi il
monte./ Lingua mortal non dice/ Quel ch'io sentiva in seno./
Che pensieri soavi,/ Che speranze, che cori, o Silvia mia!".
Oppure quelli dedicati al ricordo di Nerina nella chiusa
delle Ricordanze? "O Nerina! e di te forse non odo/ Questi
luoghi parlar? caduta forse/ Dal mio pensier sei tu? Dove
sei gita,/ Che qui sola di te la ricordanza/ Trovo, dolcezza
mia? Più non ti vede/ Questa Terra natal: quella finestra,/
Ond'eri usata favellarmi, ed onde/ Mesto riluce delle stelle
il raggio,/ È deserta". O i primaverili versi del 'Sabato
del villaggio' in cui ci presenta la 'donzelletta' che torna
dalla campagna? "La donzelletta vien dalla campagna,/ In sul
calar del sole,/ Col suo fascio dell'erba; e reca in mano/
Un mazzolin di rose e di viole,/ Onde, siccome suole,/
Ornare ella si appresta/ Dimani, al dì di festa, il petto e
il crine".
Ancora la speranza, dunque. E con la speranza, la piena
del canto.
Tanto è vero che a Firenze (siamo negli anni trenta) gli
sembra di averlo trovato l'amore, finalmente. Nelle
attenzioni che la nobildonna, giovane sposa, Fanny Targioni,
maritata Tozzetti, gli riserba. Lui si infiamma; crede di
essere ricambiato; raggiunge l'apice della felicità; oramai
la sua vita si è realizzata; lo scopo per cui tanto cammino
ha percorso fra tormenti e tribolazioni è raggiunto. E
scrive quel suo canto di trionfo che si intitola Il
pensiero dominante. Un canto solenne e melodioso, come il
canto del cigno. E' l'epifania del Divino a lungo cercato.
E' la rivelazione. E' un inno alla potenza e alla bellezza
dell'amore. "Dolcissimo, possente/ dominator di mia profonda
mente;/ Terribile, ma caro/ dono del ciel". Un sentimento
che tutto lo possiede e che crede e sente ricambiato. Un
sentimento che è tutto. "Come solinga è fatta/ La mente mia
d'allora/ Che tu quivi prendesti a far dimora!/ Ratto
d'intorno intorno al par del lampo/ Gli altri pensieri miei/
Tutti si dileguàr. Siccome torre/ In solitario campo,/ Tu
stai solo, gigante, in mezzo a lei./ Che divenute son, fuor
di te solo,/ Tutte l'opre terrene,/ Tutta intera la vita al
guardo mio!/ Che intollerabil noia/ Gli ozi, i commerci
usati,/ E di vano piacer la vana spene,/ Allato a quella
gioia,/ Gioia celeste che da te mi viene!". Gli dèi
finalmente si sono accorti di lui. E gli hanno concesso il
dono unico. Quello per cui la vita può essere considerata
divina. "Quanto più torno/ A riveder colei/ Della qual teco
ragionando io vivo/ Cresce quel gran diletto,/ Cresce quel
gran delirio, ond'io respiro./ Angelica beltade!/ Parmi ogni
più bel volto, ovunque io miro,/ Quasi una finta imago/ Il
tuo volto imitar. Tu sola fonte/ D'ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia". Ecco. Come Dante, che
finalmente vede il mistero; anche lui, il Leopardi, è
ammesso alla presenza del divino. "Apparve/ Novo ciel, nova
terra, e quasi un raggio/ Divino al pensier mio".
Ma Fanny non è Beatrice, la compagna di Dante ad attingere
il sublime; Fanny, pur affascinante, è una donna, con tutti
i pregi e i difetti delle donne di questo mondo; fra cui la
leggerezza, fra cui la sprovvedutezza, fra cui la vanità; la
vanità di essere nelle attenzioni e di essere corteggiata da
un uomo come Leopardi. E di lusingarlo. "E mai non sento/
Mover profumo di fiorita piaggia,/ Né di fiori olezzar vie
cittadine,/ Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno/ Che
ne' vezzosi appartamenti accolta,/ Tutti odorati de' novelli
fiori/ Di primavera, del color vestita/ Della bruna viola, a
me si offerse/ L'angelica tua forma, inchino il fianco/
Sovra nitide pelli, e circonfusa/ D'arcana voluttà; quando
tu, dotta/ Allettatrice, fervidi sonanti/ Baci scoccavi
nelle curve labbra/ De' tuoi bambini, il niveo collo
intanto/ Porgendo, e lor di tue cagioni ignari/ Con la man
leggiadrissima stringevi/ Al seno ascoso e desiato". (da
'Aspasia'). Ma in quanto ad amarlo, a ricambiare la sua
terribile passione... E' un'altra cosa. Fanny... Era solo
civetteria, la sua... Tragica rivelazione. Caduta di ogni
possibile illusione. La vita? Oramai buio e nulla.
L'universo? Nulla anch'esso: "Or poserai per sempre,/ Stanco
mio cor. Perì l'inganno estremo,/ Ch'eterno io mi credei.
Perì. Ben sento,/ In noi di cari inganni,/ Non che la speme,
il desiderio è spento./ Posa per sempre. Assai/ Palpitasti.
Non val cosa nessuna/ I moti tuoi, né di sospiri è degna/ La
terra. Amaro e noia/ La vita, altro mai nulla; e fango è il
mondo/ T'acqueta omai. Dispera/ L'ultima volta. Al gener
nostro il fato/ Non donò che il morire. Omai disprezza/ Te,
la natura, il brutto/ Poter che, ascoso, a comun danno
impera/ E l'infinita vanità del tutto". ('A se stesso').
Caduta l'ultima illusione con Fanny, non resta che il
pessimismo universale, non resta che il porto della morte.
E' da questo ultimo idolo infranto che nasce il così detto
'ultimo Leopardi'; il Leopardi dell'ultima disperazione; il
Leopardi del nulla eterno. Quello degli ultimi canti, a
questo proposito più significativi; e che in fondo sono i
canti della disperazione: "Amore e morte", che è un
idoleggiamento, un accarezzamento sentimentale di queste due
'divinità': il 'fanciullo Amore' e la 'bellissima
fanciulla': "Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/
Ingenerò la sorte./ Cose quaggiù sì belle/ Altre il mondo
non ha, non han le stelle./ Nasce dall'uno il bene,/ Nasce
il piacer maggiore/ Che per lo mar dell'essere si trova;/
L'altra ogni gran dolore,/ Ogni gran male annulla./
Bellissima fanciulla,/ Dolce a veder, non quale/ La si
dipinge la codarda gente,/ Gode il fanciullo Amore/
Accompagnar sovente;/ E sorvolano insiem la via mortale,/
Primi conforti d'ogni saggio core". IL canto 'A se stesso',
che abbiamo riportato per intero. "Aspasia", che, fra
l'altro, è un grido di dolore di fronte all'indegnità della
donna, che, come donna, mai non merita i sublimi moti che
l'uomo le ha dedicato e le dedica: "A quella eccelsa imago/
Sorge di rado il femminile ingegno;/ E ciò che inspira ai
generosi amanti/ La sua stessa beltà, donna non pensa,/ Né
comprender potria. Non cape in quelle/ Anguste fronti ugual
concetto. E male/ Al vivo sfolgorar di quegli sguardi/ Spera
l'uomo ingannato, e mal richiede/ Sensi profondi,
sconosciuti, e molto/ Più che virili, in chi dell'uomo al
tutto/ Da natura è minor. Che se più molli/ E più tenui le
membra, essa la mente/ Men capace e men forte anco riceve".
Sono versi ingenerosi, in cui il poeta lancia la sua
vendetta, amara, della sua amara delusione. Come "Sopra il
ritratto di una bella donna", in cui si vendica della
bellezza femminile: il ritratto sulla tomba è quello di una
bellezza superba e conturbante; ma, sotto il marmo? "Tal
fosti: or qui sotterra/ Polve e scheletro sei. Su l'ossa e
il fango/ Immobilmente collocato invano,/ Muto, mirando
dell'etadi il volo,/ Sta, di memoria solo/ E di dolor
custode, il simulacro/ Della scorsa beltà. Quel dolce
sguardo,/ Che tremar fe, se, come or sembra, immoto/ In
altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto/ Par, come d'urna
piena,/ Traboccare il piacer; quel collo, cinto/ Già di
desio; quell'amorosa mano,/ che spesso, ove fu porta,/ Sentì
gelida far la man che strinse;/ E il seno, onde la gente/
Visibilmente di pallor si tinse,/ Furo alcun tempo: or
fango/ Ed ossa sei: la vista/ Vituperosa e trista un sasso
asconde". Ingenerosità e vendette che derivano dall'amarezza
della delusione. E poi 'Palinodia al marchese Gino Capponi’,
versi sarcastici e amari, in armonia con il suo stato
d'animo, contro i filosofi dell'ottimismo. E poi 'Il
tramonto della luna', in cui, con spietata melodia di verso,
dice che dopo l'effimera giovinezza, le uniche realtà
riservate all'uomo sono la vecchiaia e la morte: "Voi,
collinette e piagge,/ Caduto lo splendor che all'occidente/
Inargentava della notte il velo,/ Orfane ancor gran tempo/
Non resterete; che dall'altra parte/ Tosto vedrete il cielo/
Imbiancar novamente, e sorger l'alba:/ Alla qual poscia
seguitando il sole,/ E folgorando intorno/ Con sue fiamme
possenti,/ Di lucidi torrenti/ Inonderà con voi gli eterei
campi./ Ma la vita mortal, poi che la bella/ Giovinezza
spari, non si colora/ D'altra luce giammai, né d'altra
aurora./ Vedova è insino al fine; ed alla notte/ Che l'altre
etadi oscura,/ Segno poser gli Dei la sepoltura".
E, in ultimo, il sublime nulla nella poesia suo testamento
spirituale, 'La ginestra'. Che è il suo religioso canto di
congedo da tutti i sogni di quaggiù, dalle speranze, dalle
illusioni, dall'amore. Dalla vita.
E tu, lenta ginestra
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Con la dignità e l'aristocratica consapevolezza di un saggio
antico. Perché lui, contrariamente alla generalità degli
uomini, volle piuttosto la luce che le tenebre.
(dallo studio intitolato Dominator di mia profonda mente, del 2004).
Nessun commento:
Posta un commento