sabato 29 dicembre 2007
IL NOSTRO PROGRAMMA.
Infatti noi (ed è soprattutto il motivo per cui abbiamo creato il blog) in quest’epoca di una nostra lingua inglesizzata e deturpata da pressapochismi, da frettolose sigle matematiche; di una lingua che è la proiezione della schzofrenica fretta moderna; ed è il risultato dello scempio che le Istituzioni, per i più vari motivi, economici sociali e politici, hanno permesso del Latino; noi proponiamo una lingua che sia la proiezione della serenità di un animo che non ha fretta, che è in pace con se stesso, e che vive secondo i ritmi della saggia e armoniosa legge di natura; una prosa che sia nobile ed elevata, concreta e fascinosa, che sia ampia e luminosa come certe nostre albe e certi nostri tramonti. E quando scriviamo noi non vogliamo guardare l’orologio, ma vogliamo guardare il nostro spirito nei suoi stupori di fronte ai vari spettacoli che ci offre la ricchezza della vita. Vogliamo creare la pagina con diligente attenzione, vogliamo meditare sulla poeticità della parola; vogliamo girarci attorno al nostro manufatto letterario e osservarlo in tutti i particolari, per vedere se tutto torna e se tutto è in armonia. Noi vogliamo avere il gusto, la competenza, la pazienza e il genio degli antichi nostri artigiani. Quelli che fecero splendida la nostra Italia. Perché noi vogliamo essere gli artigiani della nostra pagina. Sia essa in Prosa o in Poesia, non importa. Buona lettura. Maria Giovanna Perroni e Carlo Lorenzini.
venerdì 21 dicembre 2007
IL FASCINO DELL'IRRAZIONALE.
Bernard Lewis Il suicidio dell’Islam. Mondadori € 14.80.
Scheda del libro. da unilibro.it.
Per molti secoli il mondo islamico è stato all'avanguardia della civiltà umana e delle sue conquiste. Ma già nel corso del XVIII secolo si è fatta strada in Medio Oriente e in tutti i paesi islamici la consapevolezza che le cose si stavano mettendo decisamente male. Rispetto alla rivale millenaria la cristianità, il mondo islamico stava diventando più povero e più debole. Scritto alla vigilia dell'11 settembre 2001, Il suicidio dell'Islam è una pacata e lucida analisi di un fatto storico, il declino della civiltà mediorientale dal XVII secolo a oggi, e un energico invito all'autocritica rivolto ai diretti interessati. «Se i popoli del Medio Oriente continueranno sulla strada attuale» sostiene l'autore «l'attentatore suicida potrebbe diventare una metafora del loro destino ... Se riusciranno a smetterela con le lagne e il vittimismo, se proveranno ad appianare le divergenze e a coniugare capacità, energie e risorse in uno sforzo creativo comune, potranno di nuovo fare del Medio Oriente un importante centro di civiltà.»
Commento.
“Se i popoli del Medio Oriente continueranno sulla strada attuale» sostiene l'autore «l'attentatore suicida potrebbe diventare una metafora del loro destino “: Questa è un’interpretazione illuministica e razionale della Storia. Di contro al teologismo, al fanatismo, alla superstizione; cioè di fronte all’irrazionale. Ma se ora, nei corsi e ricorsi delle vicende dell’uomo, l’irrazionale fosse la dimensione vincente? Se fosse il miraggio, l’ideale, inconfessato e non dichiarato, dell’illuministica odierna civiltà occidentale? Allora il Fondamentalismo, nonostante tutto, sarebbe avviato verso la vittoria. Con quali conseguenze non sappiamo. Ma certo tragiche. I Savonarola non sono sconosciuti alla civiltà. E vincerebbe, non per un suo valore intrinseco; ma perché la forza della ragione nei suoi avversari è debole. Perché è forte il fascino dell’irrazionale e dionisiaco nel figli del razionale e illuministico Voltaire.
martedì 18 dicembre 2007
VIRTUS ÈRIPI NON POTEST.
Virtus nec èripi, nec sùrripi potest umquam; neque naufràgio, neque incèndio amìttitur; nec vi tempestàtum nec tempòrum perturbatiòne mutàtur.
(Jean Jacques Boissard (1528-1602).Emblematum liber. LI.
sabato 15 dicembre 2007
NORMALITA' E STRAORDINARIETA'
Siamo al 26 dicembre 1998, è il giorno del 37 compleanno del nostro matrimonio. Mia moglie come dono principale mi scrive una breve lettera che accompagna una sua poesia. Io, anch’io rispondo, con una lettera, senza poesia. Eccole di seguito: la lettera di mia moglie, la sua poesia e la mia lettera di risposta.
*
A Carlo. Lettera. Montepulciano 26 Dicembre 98.
Caro Carlo, spero che
vorrai gradire, anche quest'anno, la mia poesia d'amore per
il nostro anniversario. Mi è costata più delle altre volte,
perché ho perduto l'abitudine a poetare e non so ancora
scrivere altrettanto bene in prosa (almeno su questi
argomenti). Ma tu saprai capire (o ironizzarci come al
solito, dicendo che ho voluto risparmiarmi di fare un 'vero'
regalo!). Così com'è questa mia poesia io te la dono, in
segno di un affetto che so, ormai, sarà eterno. Un abbraccio
forte forte. Tua Nanna. P. S. Buon anniversario di
matrimonio.
*
Poesia. IL MIO AMORE. Il mio amore, puledro, corse corse,/
alternando gli errori e le conquiste,/ ma, a ogni corsa, più
forte e resistente.// Il mio amore, stallone adulto, corse,/
saltando in sicurezza, siepi e fossi,/ molte corse veloci ed
eleganti.// Il mio amore, cavallo, adesso, stanco,/ ma
esperto della lunga strada corsa,/ spinge, alle corse, un
corpo un poco ansante.// Il mio amore, ormai rozza senza
forze,/ quando traballerà sulle sue zampe,/ seguiterà la
corsa con la mente.// Felice quel cavallo e le sue corse,/
perché sa dare, o Amato, ogni risorsa,/ per essere, alla
"corsa" tua, vincente!.
*
GRAZIE DI TUTTO
per un anniversario di matrimonio
26 dicembre 1961 - 26 dicembre 1998
Grazie di tutto.
Grazie, Nanna, del cuore con cui vivi la tua vita, e della
gioia con cui ne assapori le bellezze e le dolcezze; e della
serenità con cui ne sopporti le contrarietà e le amarezze. E
grazie del sorriso con cui la illumini.
Grazie per l'innocenza e lo stupore con cui guardi il
cielo con la sua aria, la sua luce, la sua luna e le sue
stelle; e per il cuore con cui guardi la natura, con la sua
vita, i suoi colori, i suoi profumi, la sua bontà.
Grazie del cuore con cui scrivi le tue poesie; e per il
cuore con cui le leggi a me e agli altri; e grazie per la
gioia che provi quando gli altri, che le leggono, ti dicono
che sono belle e profonde. E grazie per il profumo di cui
esse profumano la vita.
Grazie per la gioia con cui vivi questo Natale; per la
poesia con cui hai fatto il presepio; il tuo presepio; per
la gioia mia, di nostra figlia, di tua madre, degli ospiti
che vengono, e tua; grazie perché ogni volta lo fai ammirare
come il simbolo della tua casa, della nostra casa, del tuo
focolare domestico, della tua serenità e della tua felicità.
E grazie per la dolcezza e la pensosità con cui, nei
momenti in cui sei con te stessa, canti sottovoce "Tu scendi
dalla stelle"; e ogni altro canto religioso di nostalgia e
di edificazione.
E grazie per la determinazione con cui oggi, Natale,
nonostante fossimo soli, hai voluto che nella nostra casa
fosse festa. Grazie per le candele rosse accese durante il
pranzo, per la tovaglia di bucato, per i piatti, i bicchieri
e le bottiglie dalla fattura elegante, per le posate
d'argento, per il tortino, per le patatine al burro, per il
dolce casalingo al caffè e al cioccolato che hai voluto tu
stessa confezionare, per il caffè e per tutto; e soprattutto
per la serenità, la gioia e il sorriso con cui sedevi di
fronte a me, a rendermi lieta e sacra la festa.
Grazie per tutte le altre cose belle e grandi, che ora non
ricordo; e per tutte le altre che ricordo e che sarebbe
lungo menzionare.
E grazie anche, e soprattutto, perché sei mia moglie e io
tuo marito.
Grazie di tutto. Con amore. tuo Carlo.
Montepulciano. 25 Dicembre 1998.
***********
Dunque. Giovedì sei gennaio eravamo a Teleidea; ospiti in una trasmissione, il cui tema di discussione era l’Amore, nelle sue varie accezioni. E noi (siccome erano in tema) abbiamo, fra l’altro, letto queste composizioni. Ebbene chi ci ha ascoltato è rimasto ammirato ‘vedendo’ e toccando con mano il nostro amore. Una signora, incontrandomi il giorno dopo, mi confessò, che, ascoltando le parole che io avevo scritto per mia moglie, in occasione dell’anniversario di matrimonio 1998, si era commossa e, soprattutto, si era vergognata di non essere come eravamo noi due.
Questa, dunque, è l’immagine che hanno di noi coloro che ci conoscono: un idillio d’amore, una vita di piena sintonia. Pensate, dunque, quello che succederebbe in queste coscienze di fronte ad un eventuale nostro divorzio... Un terremoto psicologico.
Noi quindi, anche se lo volessimo, non potremmo essere diversi; pena lo scandalo che si provocherebbe in coloro che ci conoscono in un certo modo. E così ci vogliono. Che poi è il modo della nostra vita normale. Voglio dire che per noi l’essere come siamo rientra nella quotidianità della nostra vita. Semmai l’assurdo sta nel fatto che la normalità è scambiata per eccezione, per straordinarietà. E anche quella lettera che ho letto (e durante la mia lettura anche la conduttrice della trasmissione aveva le lacrime agli occhi) era una lettera del tutto ovvia. Registrava, quasi nella prolissità di un elenco, cose vere che si riferivano ad atti e atteggiamenti che compie e assume normalmente mia moglie, come ogni altra donna che normalmente abbia la religione della famiglia perché ama il marito i figli e l’intimità della sua casa. Ed è ovvio e normale che il marito (un marito, anche lui, preso nel giro degli affetti), di fronte a questo comportamento, si senta gratificato e risponda come ho risposto io, con amore riconoscente. Se poi questa normalità viene scambiata per eccezionalità, allora signfica che c’è qualcosa che non torna nel complesso della società. Ma cosa? Io non saprei dirlo. Dante, certo, avrebbe fatto la sua diagnosi. E avrebbe messo sotto accusa il tipo di Amore che noi normalmente usiamo. Un amore non buono. Un amore che è chiamato amore, ma che, in realtà, non lo è; è egoismo, è passione, è desiderio di ricchezza, di potenza, di fama. E non usiamo, invece, l’altro amore, quello vero e buono, che è ‘pìetas’, è carità, disponibilità, altruismo. Che è quell’amore normale e quotidiano che dovrebbe colorire i fatti più normali della nostra vita di tutti i giorni. Anno 2007.
mercoledì 12 dicembre 2007
IN PRINCIPATU COMMUTANDO...
In principatu commutando civium nil praeter domini nomen mutant pauperes. Phaedrus.
La frase è di Fedro, il famoso favolista latino. Ma Fedro (non è farina del suo sacco), l’ha ricavata dalla saggezza di un asino. Poi questa sua esperienza l’ha raccontata in una favola. Eccola:
Asinus ad senem pastorem
In principatu commutando civium
nil praeter domini nomen mutant pauperes.
Id esse verum, parva haec fabella indicat.
Asellum in prato timidus pascebat senex.
Is hostium clamore subito territus,
suadebat asino fugere, ne possent capi.
At ille lentus ‘Quaeso, num binas mihi
clitellas impositurum victorem putas?’.
Senex negavit. ‘Ergo, quid refert mea
cui serviam, clitellas dum portem unicas?’.
Quando negli stati mutano le forme di governo,
per i poveri nulla cambia, eccetto il nome del
padrone. E questa breve favola dimostra che ciò
è vero. Un vecchio, che di tutto aveva paura, faceva
pascolare in un prato il suo asinello. Quando
improvvisamente fu spaventato dal clamore
dei nemici. Allora si mise a persuadere l’asino
a fuggire: ‘Altrimenti ci prendono’, gli diceva.
Ma l’asino, continuando tranquillo a pascolare:
‘Dimmi’, disse, ‘credi forse che il vincitore mi
metterà due basti?’. ‘No davvero’, rispose il
vecchio. ‘E allora: che importa a chi dovrò servire,
se il mio destino è quello di portare sempre un
unico un basto?’.
La breve favola ha per protagonista un povero asino. Un asino. L’animale, che nel giudizio comune non gode certo di buona fama. E’ simbolo di stupidità e di stoltezza. L’asino raramente fa bella figura nella letteratura. Non in Apuleio, dove Lucio, che vorrebbe diventare un uccello, diventa invece, per errore dell’unguento magico, asino, in Apuleio simbolo della lussuria e dell’animalità; non in Cervantes, in cui Sancio Panza, contadino, cavalca un asinello, diversamente da don Chisciotte, nobile, che è sopra un vero cavallo. Non in Collodi, in cui vengono trasformati in asini i ragazzi poco studiosi e fannulloni, come Pinocchio... Mentre invece nei Vangeli questo umile animale riscatta la sua dignità: è l’asino che porta in Egitto, lontano da Erode, la Sacra Famigli; ed è l’asino che Gesù sceglie, per il suo ingresso trionfale in Gerusalemme, nella Domenica delle Palme.(Vedi, a questo proposito, il racconto’Storia dell’asino profeta’ di Maria Giovanna Lorenzini). Qui, in Fedro,l’asino, è un saggio, un filosofo, che sentenzia sulle vicende umane. E lo è anche nel Carducci, filosofo. Nel finale della poesia ‘Davanti san Guido’: il treno passa attraverso la pianura maremmana, ansimando; un’elegante schiera di puledri corre e manda lieti nitriti al rumore;mentre un asino bigio, non si scompone. Di fronte a quel portento della civiltà moderna, non muove costa, manco guarda, continua a mangiare.
Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr'io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
(G.Carducci ‘Davanti san Guido’)
E, saggio e indipendente, lo è anche in questo mio pezzo che descrive il palio degli asini a Contignano.
Il palio degli asini, a Contignano...
Da anni che non ne rivedevo. Avevo assistito a una
manifestazione simile da giovane, nella vasta piazza a
sterro di Torrita di Siena. Ma, a quel tempo, con altro
spirito e altra mentalità. Mentalità aristocratica e superba,
proprio dei giovani, o dei giovani intellettuali, o dei giovani
professori. Infatti, allora, quel palio non mi piacque; o
non riuscì a dirmi nulla.
Ieri, invece: un'altra maturità, un'altra filosofia, una
diversa visione della vita; diversi occhi per vedere e
capire; secondo cui non la tecnica, non la programmazione,
sono gli ingredienti fondamentali e direttivi della nostra
esistenza; ma il caso, l'irrazionalità. E quegli asini mi
hanno consolato; mi hanno dato una lezione di vita. Così
indocili e riottosi; così dignitosi e imprevedibili; così
liberi e imprendibili; come la volontà che decide delle
nostre sorti e dei nostri destini.
La folla, molta folla, spensierata e divertita; e nella
folla, molta gioventù; e nella gioventù molte ragazze,
stupende... Congratulazioni ai Contignanesi, che oltre ad
avere un meraviglioso paese, dove, girando per le vie, si
respira un senso di spirituale benessere come per
un'artistica luce di eleganza e di armonia; oltre ad avere
meravigliosi contadini, ancora capaci dell'allegria e della
spensieratezza del vino e che pure, nell'ebbrezza, non
dimenticano che a casa ci sono gli animali che aspettano di
essere rigovernati; oltre a confezionare squisiti ravioli;
hanno anche delle ragazze incantevoli...
La folla, dunque, rideva e si divertiva. Io: ma è un po'
il mio mestiere: osservavo e meditavo.
Noi disponiamo, programmiamo, educhiamo, addestriamo,
ammaestriamo. Ma la vita è capricciosa e imprevedibile;
impara dagli asini. E si comporta bizzarramente. Ti fa
trovare quello che non ti aspetti; e ti delude, invece, in
quello che ognora speri e in quello che insopprimibilmente
sogni. Come quegli asini; che nella loro indifferenza e
nella loro libertà andavano in tutte le direzioni, eccetto
che in quelle prescritte e tracciate dall'ingenuità degli
Organizzatori.
E poi quei giovani fantini; che avevano il compito di
cavalcare: si fa per dire: gli asini. Nonostante i loro
frequenti capitomboli; nonostante le corse per riacchiappare
quelle bestie che trottavano via sempre per conto loro in
una loro inguaribile imprevedibilità e caparbietà; e che,
sul più bello, spesso si fermavano e si impennavano e non
c'era più modo di smuoverli da quella loro irritante
indifferenza e indocilità; non un moto di impazienza, non un
maltrattamento, non un'arrabbiatura; ma risate e allegria e
festevolezza.
Per cui, ripensando alla cronaca di certi palii coi
cavalli... E poi i ravioli....
Montepulciano 24. Agosto 1992.
*********
martedì 11 dicembre 2007
PER UN PIATTO DI LUMACHE.
Sembrava fatto su misura perché gli uomini lo potessero abitare il pianeta Servus IV della stella Gigas. Se non fosse stato per la faccenda delle lumache, che vi erano in numero straordinariamente grande e che si cibavano anche di carne umana: quando Jimmy Strutton si accorse del fenomeno, avevano già quasi divorato i suoi tre compagni. Ed ora certo toccava a lui, nonostante i suo sforzi per difendersi e nonostante avesse chiesto aiuto ad astronauti di scorta nello spazio. Ma, non tutte le lumache sono lumache. Certe lumache possono anche essere frutto di fantasia, o, meglio, di allucinazione... Guardiamo. Il racconto è di Maria Giovanna Perroni Lorenzini. Ed è uno dei più bei racconti della scrittrice poetessa. E’ ricco di atmosfera. Ed è frutto di una fantasia vasta e originale. Buona lettura.
volte al giorno.
Nei primi tempi erano stati molto guardinghi. Tenevano la
maschera e avevano fatto solo brevi escursioni. Poi, visto
che non sembrava esserci nulla da temere, si erano lasciati
un po' andare. Si erano tolte le maschere, sostituendole con
leggere reticelle, per difendersi dagli insetti; e spesso
levavano anche i guanti, pur stando attenti a non toccare
cose sconosciute a mani nude. E indossarono tute più
leggere.
Finché quel giorno addirittura avevano fatto una specie di
pic-nic all'aperto. E dopo il pranzo si erano anche
addormentati vicino a un albero, resi ebbri dal sole, dal
cibo, e dalla gioia di aver trovato una nuova speranza per
l'umanità, ormai pigiata su una terra estremamente
contaminata e con le risorse quasi esaurite.
Ma Jimmy si risvegliò improvvisamente, sentendo una specie
di morso alla mano sinistra, trattenuta da qualche cosa di
molle e appiccicoso.
Si alzò, emettendo un urlo. E d'istinto, cacciò via quella
cosa che qualificò per un'enorme lumaca. La mano gli
sanguinava abbondantemente.
Si volse allora ai compagni, anch'essi sdraiati a terra.
Ma con raccapriccio vide che erano completamente coperti di
lumache, grandi e piccole, a forma di foglia, che si erano
arrampicate sulle tute e li stavano divorando.
Calzati i guanti, lottò ferocemente per staccare qualche
lumaca dalla carne dei compagni; ma si accorse che essi
erano morti e che addirittura non avevano più né viso né
mani. E che le lumache, emettendo un liquido solvente,
stavano ormai disfacendo le tute e penetravano dentro i
corpi da tutte le parti: ben presto li avrebbero divorati
interamente.
Pur disperato, prese comunque atto della situazione, e,
anche se il suo desiderio era quello di correre
immediatamente al riparo nella navetta, decise che doveva
saperne di più.
Quindi, pur badando a non far salire lumache lungo le sue
gambe, si mise a guardare da dove provenivano queste bestie;
di cui, nei giorni precedenti, sia lui che i suoi compagni
non avevano visto traccia.
Ma non ci fu bisogno di andare lontano; ché, alzati gli
occhi all'albero, colse parecchi movimenti e si accorse che
ogni foglia era una lumaca. Queste stavano attaccate ai rami
con i cornini sapientemente intrecciati da sembrare foglie
con il proprio picciòlo. E, adesso che si staccavano per
correre a banchettare con i resti dei suoi compagni, vedeva
che lasciavano nei rami un forellino, da cui certo
succhiavano la linfa vitale.
Ma ora erano attratte maggiormente dalla carne; ed erano
come impazzite.
Jimmy allora andò vicino ad altri alberi; e notò che tutti
erano simili al primo.
Probabilmente l'intero pianeta aveva queste stesse
caratteristiche. Ed era perciò che non avevano visto
animali! Inoltre: e ora lo vedeva!: nessuna farfalla si
avvicinava mai agli alberi.
Avrebbe voluto seppellire quel poco che restava dei
compagni. Ma le lumache gli facevano troppa impressione. E
forse era per questo che si sentiva male.
Nel difendersi da una lumaca particolarmente aggressiva,
la tagliò in due. Ma le due parti diventarono altre due
lumache. Mentre intanto, quelle nutrite con la carne
ingigantivano rapidamente.
Decise allora di abbandonare quel luogo per far ritorno
alla navetta. Raccolse, quindi, in fretta i suoi strumenti e
quelli dei suoi colleghi, e vi si diresse correndo.
Qui giunto, però, ebbe una triste sorpresa. L'abitacolo
era invaso dalle lumache; che loro stessi senza avvedersene
vi avevano introdotto nei giorni precedenti, nascoste dentro
qualche strumento o sotto gli scarponi.
Le quali, durante la loro ultima assenza, erano arrivate
ai viveri degli astronauti, e si erano nutrite con quel
cibo, ingrossandosi e moltiplicandosi rapidamente.
Jimmy si fece a fatica strada fra loro, per raggiungere la
radio e, ottenuto il collegamento con la nave spaziale,
trasmise l'S.O.S., avvertendo della situazione e chiedendo
la navetta di soccorso.
Intanto provò contro le lumache tutte le difese che aveva
a disposizione: dal fuoco agli insetticidi; ma nulla
funzionava.
Né di partire si poteva parlare; ché, nel rientro, lo
avrebbero assaltato mentre era intento a guidare.
E poi con il loro solvente avevano già bucato il pavimento
e rovinato molti strumenti; per cui la nave oramai doveva
essere fuori uso. Era già un miracolo che fosse intatta la
radio.
Mentre attendeva, sentiva che gli saliva la febbre: forse
la lumaca che lo aveva morso lo aveva anche avvelenato; e,
forse, avvelenati erano morti i suoi compagni.
L'attesa era lunga e le lumache divenivano sempre più
numerose e aggressive contro di lui; ora che avevano finito
i cibi liofilizzati e avevano digerito anche le scatole.
Si ritirò sempre più in alto. Poi cominciò a sparare. Ma
ogni lumaca fatta in dieci pezzi si moltiplicava in
altrettante lumache.
Certo la partita era perduta.
E intanto che si riduceva vicino al soffitto, ricordava
che, fin da piccolo, le lumache lo avevano impressionato;
come quella volta che aveva avuto le convulsioni, quando lo
volevano forzare a mangiarne un piatto. Ricordò anche come
tutte le persone che gli erano odiose gli fossero sempre
sembrate enormi lumache.
Ormai non sperava più nei soccorsi. Non avrebbero fatto in
tempo.
Sapeva di essere condannato e ad una morte orribile; ma,
pur nell'orrore della situazione e in attesa delle
convulsioni che lo avrebbero certamente preso nel sentirsi
le lumache sulla pelle, era contento di aver salvato i
compagni dell'astronave da successive disastrose spedizioni,
avvertendoli subito del pericolo e risparmiando loro la sua
stessa fine.
Così, mentre respingeva quante più lumache poteva, si mise
anche a cantare.
Gli spari e il suo canto arrivavano, tramite la radio
rimasta accesa, alle persone in ascolto sulla nave spaziale
in orbita intorno al pianeta.
Ma il poveretto si sarebbe meravigliato alla loro
reazione. "Poverino!", dicevano, "Ha il delirio. Gli
strumenti rilevano una febbre altissima. Sta morendo. E'
inutile ogni soccorso. E senz'altro i suoi compagni sono
morti della stessa febbre. Le lumache se le sogna".
Nel computer di bordo infatti c'era riportata la sua
idiosincrasia per le lumache; e anche l'episodio delle
convulsioni. Per il quale Jimmy aveva anche rischiato di non
essere ammesso al corso per astronauti.
E conclusero che nelle spedizioni successive avrebbero
dovuto stare più attenti contro ogni possibile tipo di
virus.
fine
domenica 9 dicembre 2007
IL PRESEPIO.
Quella sera Luigi era arrivato più presto del solito a posare la sua bicicletta nel capanno della piccola fattoria subito ai piedi della collina. Era stata la gentilezza del proprietario, erano stati
amici da ragazzi su in paese, a offrirgli il riparo nel capanno: “E che fai? spingi la bicicletta fin lassù?”; “E se no, come?”. “La metti qui da noi, nel capanno e la riprendi al mattino. E poi potevi anche chiederlo… Altrimenti, l’antica amicizia a che serve?”. Era un capanno aperto, una specie di tettoia, che serviva soprattutto per riparare dalle intemperie il carro dei buoi. E così la posava alla sera e la riprendeva al mattino. Per recarsi al lavoro giù nella tenuta di Marinella, in qualità di operaio agricolo. Era operaio tutto fare, a seconda della necessità delle stagioni. Ora, era dicembre ed eravamo sotto Natale e negli uliveti dell’azienda c’erano ancora olive da bacchiare, da raccogliere e da molìre. E poi c’era tutto il daffare nelle cantine: il primo generale travaso del vino, che andava messo al pulito per un suo secondo turno di riposo.
Generalmente arrivava a rimettere la bicicletta tra le sette e le otto di sera.
Ma quella doveva essere una serata speciale. Aveva incontrato la Carolina la domenica prima; o meglio, sapendo che era in paese, aveva finto di incontrarla per caso sulla curva del Colletto, ed invece l’aveva appostata, mentre ritornava a casa. Si era fatto coraggio e glielo aveva chiesto: “Potremmo parlare noi due; potremmo metterci d’accordo”: Lei (sapeva di cosa si trattava), non aveva risposto. Fu lui che disse: “Potrei passare da te una di queste sere...”. Poi, visto che la donna non diceva niente, fu lui che decise: “Se ti va bene, per martedì, dopo domani, verso le otto di sera, quando torno dal lavoro”. Lei accennò di sì. “A quell’ora, commentò l’uomo, le ragazze non ci saranno più”. E la donna lo aveva salutato sorridendo leggermente e aveva proseguito lungo la via verso casa, lì appresso. E lui, lungo la stessa via, piano piano, era risalito su al borgo.
La conoscevano tutti in paese la Carolina. Sui trentacinque anni, ancora del tutto piacente, la persona sempre ben curata, sobriamente elegante. Era maestra di cucito in quella sua casa isolata a mezza costa della collina, lungo la via nuova, dove viveva sola.
E la mattina del martedì Luigi aveva avvertito la figlia Dora che sarebbe tornato tardi la sera: un lavoro straordinario in fattoria...
Ma sul lavoro il pensiero dell’importante decisione che stava per prendere gli aveva messo addosso l’ansia di arrivare prima all’appuntamento. E di nuovo aveva detto la bugia: “C’è mia figlia che desidera le faccia il presepio, e oggi ne abbiamo già venti: se potessi andar via un paio d’ore prima”. E il dirigente glielo aveva concesso, anche perché il lavoro della cantina era oramai terminato. E così, posata la bicicletta, si era avviato verso il paese che erano da poco passate le sei. Era già notte. Le rare luci pubbliche illuminavano debolmente la via. Andando pensava alla Carolina. Ma più che alla Carolina pensava alla donna e all’amore in generale. Avere di nuovo accanto il calore di una donna... Da quant’era che non provava la meravigliosa sensazione? Oramai erano passati cinque anni…
Arrivato in cima al primo tratto di montata si fermò affacciato al murello che guarda, laggiù sotto, il Parmignola. La notte limpida e piena di stelle invitava agli indugi, alla contemplazione, al flusso dei pensieri, dei ricordi. Di fronte, di là dal torrente, il borgo di Serravalle; alla sua destra il ponte, il ponte di San Rocco. Ripensò. Era lì, sul ponte, che alla sera, ogni volta che poteva, aspettava la Gina che, assieme ad altre compagne, quell’estate, scendevano da Casano; dove, in gruppetto, due o tre volte la settimana, si recavano presso una sarta maestra alla scuola di cucito. Arrivavano giù dalla strada del frantoio. Quando lo vedevano fermo sul ponte, le altre si guardavano tra loro e poi, sorridendo ironiche, guardavano la Gina, che diventava tutta rossa: “Hai visto che lui c’è?! Le tue paure!”; la quale
rallentava, mentre le compagne affrettavano il passo per distanziarla e agevolarle l’incontro con il corteggiatore. Poi: “Ciao, Gina”; “Oh, Luigi”. E non si davano neanche la mano. Troppo ardire sarebbe stato. Solo si guardavano e si sorridevano. E con quel suo sorriso lei gli diceva che oramai viveva solo per essere aspettata da lui ogni volta su quel ponte. Ed era bella la Gina. Aveva i capelli castani e li aveva abbondanti e vivi, con le sue trecce capricciosamente mosse sul petto o lungo la schiena, come molte delle ragazze nicolesi. E anche gli occhi aveva del colore delle castagne. E a lui bastava guardarla e gli bastava il sapere di essere amato da quella fanciulla che aveva tutti i profumi e le soavità della primavera e aveva la sua personcina così minuta e graziosa, che in un abbraccio avresti avuto paura di romperla.
Poi, dopo il corteggiamento, il fidanzamento; e presto il matrimonio; con Gina un boccio di rosa che stava aprendosi in fiore dai colori e dai profumi tutti spiegati e inebrianti. E subito le nascite dei figli. Prima Mario. E poi, dopo una gravidanza non riuscita, Dora.
Intanto Luigi aveva ripreso il cammino, su per il secondo tratto di montata, quella che arriva alla Capannetta. La quale montata, a metà via, si affaccia come un balcone in vista della pianura di Luni, fino al mare di Marinella e fino a Sarzana. Uno spazio pieno di luci. Quasi a voler competere con il firmamento del cielo. Con qua e là gruppi di case, quasi minimi villaggi, illuminati come tanti presepi. Guardando, si ricordò ancora che anche lui doveva fare il presepio. Dopo cinque anni avevano deciso di riprendere la tradizione... E Dora era da un po’ che glielo chiedeva: “Babbo, quando lo facciamo il presepio?”. Dora aveva preparato tutto. Bastava solo un po’ di volontà e un po’ di confidenza con i fili elettrici. La volontà ce l’avrebbe messa Dora. Ma maneggiare fili elettrici, quello era compito del babbo… Dora… Era stato dopo la nascita di Dora, che la sua Gina aveva incominciato a tossire… Ma era stata una cosa passeggera. Poi si era ripresa, tanto che aveva potuto allattare la bambina; che era cresciuta in salute, in grazia e in dolcezza. Una ragazza che era un tesoro. Sembrava avesse il compito di compensare la vivacità di Mario. Di fronte all’esuberanza del fratello, lei cresceva docile e remissiva piena di affezioni e di tenerezze. Ma, in fondo, il babbo era orgoglioso di tutti e due i figli, virtuosi e saggi pur nella diversità dei caratteri.
Alla Capannetta ebbe di fronte, lassù in lontananza, il santuario. A Ortonovo non si risparmiavano: una grande ‘M’ , che prendeva tutta la facciata della chiesa, sfolgorava nel buio della notte, a dimostrare l’intensa religiosità estroversa e piena di folclore dei paesani e a ricordare la protagonista di questo straordinario evento: Maria, che nella sua umiltà, in situazioni drammatiche (la neve, la stalla, la mangiatoia, la paglia, i pastori, il bue e l’asinello), diede alla luce il Re dell’universo, il Redentore degli uomini. Il pensiero di Maria e della sua maternità riportò alla coscienza dell’uomo antichi ricordi. Quando nelle sere avanti il Natale il presepio lo facevano assieme, lui e la Gina. O meglio lo faceva la Gina. Lui, al solito, era l’esperto per l’impianto delle
luci. Mentre, erano le mani agili ed eleganti della Gina, guidate dal suo buon gusto, a mettere, a togliere, ad aggiustare, a modellare, a rifinire, a distribuire, a equilibrare, era il suo estro inventivo ad avere la visione di insieme e a crearla. E lui era lì soprattutto per rispondere affermativamente alla frequente domanda di lei; “Così ti va?”, “Così ti piace?”; “Così è perfetto!”. Ma lui era lì anche per un’altra cosa: quegli occhi di lei pieni di luce mentre realizzava; quel suo sorriso pieno d’amore mentre lo guardava e gli chiedeva l’assenso, quelle sue mani, così femminili e così prensili e realizzatrici mentre creava; e quella sua persona così armoniosa e piena di fremiti nel fervore della creazione… Era lì anche per un’altra cosa…
Poi… Era stato durante la realizzazione dell’ultimo presepio, cinque anni prima… Che, da allora, non si erano fatti più presepi in casa.
Si era accorto che l’intensa suggestione di quei ricordi gli aveva inumidito gli occhi. E che quel continuo rievocare gli rallentava l’andatura. Erano già le sette. Le stava scandendo il campanile lassù in alto. Oramai tanto valeva arrivare all’orario convenuto. Non prese, quindi, il terzo tratto di scorciatoia. Proseguì per la via nuova. Una via in cui avrebbe allungato, rispetto alla montata. Ma, più ampia e agevole, sarebbe stato più comodo e piacevole, andando, indugiare a pensare e a rievocare...
Tutto era successo durante la creazione del presepio cinque anni prima. Improvvisamente (a lungo il fuoco aveva covato sotto la cenere) un colpo di tosse che le lacerò il petto alla Gina. Poi un secondo. Poi un terzo. Tanto che dovette smettere di lavorare e dovette stendersi a letto. Perché, d’un tratto, l’aveva anche aggredita uno sfinimento di debolezza, mortale. Il presepio quell’anno rimase incompiuto. E anche la vita della Gina, dopo un alternarsi di cadute e di riprese, si era interrotta a metà. Si era fermata dopo qualche mese. Nella primavera dell’anno seguente.
Oramai, superati i castagni della Vedova, la casa della Carolina era vicina. Ma, lo sentiva: non era più nello spirito adatto per quell’incontro. I ricordi gli avevano preso il cuore e lo avevano frastornato. Comunque, era lo stesso intenzionato a bussare. Le cose presenti l’avrebbero vinta su le cose lontane. La commozione, colpa più che altro dell’atmosfera natalizia che seduceva all’intenerimento, sarebbe passata. E tutto si sarebbe svolto secondo il desiderio di entrambi.
Anche di Carolina... Sapeva il motivo per cui Luigi si era invitato... E in fondo non era scontenta... Se dopo l’insuccesso del suo fidanzamento (quanto aveva amato! e in che modo cieco e assoluto!), aveva desiderato una vita nel silenzio e nell’isolamento, ora, gli anni, la solitudine, il futuro... forse le facevano paura...
Luigi, avvicinandosi alla porta, sentì gente che discuteva all’interno, in un’animazione di molte voci. Si scostò da una parte. Nascondendosi nel buio. Attese che l’uscio si aprisse. Si aprì quasi subito. E vide nel fascio di luce la Carolina che stava salutando le ragazze e alcune mamme, che erano venute a prendere le figliole, per accompagnarle, data l’ora tarda... Scesero nella via. Ma erano nella via che ancora chiacchieravano e salutavano. Poi in gruppo chiacchierando tuttavia si diressero verso il paese. E, quand’ebbero svoltata la curva del Colletto, tutto ritornò nel silenzio.
Ormai si doveva essere vicini alle otto. E Dora, da massaia scrupolosa e metodica, senz’altro stava mettendo tavola. E lui immaginò le proteste della ragazza, mentre preparava la mensa: “Povero babbo, sempre indaffarato. Chissà a che ora arriverà a cena”. La sua Dora! Così piena di premure per il babbo!. Immaginò la sua reazione alla notizia che in casa sarebbe venuta un’altra donna al posto della mamma. E anche la reazione di Mario; anche lui aveva conservato una specie di venerazione per la memoria della mamma. E’ per questo che non aveva avuto il coraggio di informarli sul vero motivo del suo eventuale ritardo, quella sera... Ma si impose di pensare all’incontro con la Carolina. Dopo tutte le bugie che aveva distribuito per realizzarlo, non voleva che … E cercò di immaginarla come moglie. Ma di nuovo ripensò alla Gina. Quando la sera, prima di andare a letto, erano un momento in cucina soli che lui leggeva il giornale e lei cuciva. Come lo guardava ogni tanto, alzando gi occhi dal lavoro...
Con quale intensità e soavità di sguardi.... Oh, la Gina!. E non attese che suonassero le otto. Il cuore non gli resse. “Si vede che non è destino”, concluse fra sé, “Né per me, né per lei”. E si avviò verso casa. “Forse, disse ancora fra sé, andando, forse farò in tempo a cenare con loro. E a incominciare a por mano al nostro presepio. Che ormai è l’ora”
*****
UN ALTRO PIU' SOAVE PROFUMO.
Quando con le mie cinque pecore passai da casa di Berto, per andare insieme al pascolo, vidi che ad aprire la stalla quella mattina c’era la Pina, la sorella minore. E prima che avessi modo di domandare, fu la mamma che dalla finestra su di camera (stava rifacendo i letti) mi disse: “Berto è impegnato nella raccolta del grano giù nella pianura di Luni; sono venuti a chiamarlo improvvisamente ieri sera; ce ne avrà per un pezzo; al suo posto viene la Pina”. Senza Berto mi sentii solo. Passare il tempo in compagnia di quella... E a fare che? Mi sarei messo a piangere. Lei intanto... Sentivo dentro la stalla la sua voce che radunava le pecore, sei, per indirizzarle verso l’uscita. E poco dopo vidi le pecore uscire in bell’ordine, una dietro l’altra. Per ultima uscì la Pina. Che, chiudendo, mi guardò e mi salutò: “Oh, Sereno, buon giorno!”. E anch’io la salutai e la guardai. La guardai, per vedere se potevo scoprirle addosso quella scemenza di cui parlava sempre Berto. “Mia sorella è scema”, diceva; “Già tutte le ragazze... Anche la Pina non capisce niente”. Per Berto la stupidità della sorella, e delle altre ragazze, era una verità a priori; era vero, in quanto lui lo pensava e lo diceva.
Comunque, guardai la Pina, mentre usciva dalla stalla, la guardai bene, e di scemenza addosso non riuscii a vedergliene. Vidi invece altre cose, che non avevo mai notato prima nelle femmine. Vidi che aveva i capelli tirati dietro in due lunghe trecce, fermate in fondo da due vistosi fiocchi rossi. Vidi che aveva gli occhi limpidi; e un viso gentile; e un sorriso luminoso: il sorriso con cui mi aveva salutato. Vidi il golfino verde che indossava e, fermata ai fianchi, la gonnellina marrone che le arrivava sotto le ginocchia; e che era scalza, come del resto anch’io. Vidi che aveva a tracolla una borsa di pezza e in mano una verga con cui guidava le sue pecore.
Poi i due gruppi di pecore si avviarono nella fresca chiarità del mattino estivo; e noi, io e la Pina, dietro. Prima di uscire dalla Porta del borgo, mi chiese: “Dove andate di solito con Berto?”, “Un po’ dappertutto. Questa mattina s’era deciso per l’oliveto della Geltrù”.
Oltre la Porta (eravamo quasi alla fine di giugno ed era di mattino abbastanza presto) ci apparve il cielo in tutto il suo splendore e l’azzurro del mare pieno di luce, in tutta la sua vastità. Le rondini erano già nel loro gridato affaccendarsi in un incessante andirivieni fra la gronda in alto della scuola e l’aperto spazio sopra la valle.
Nel pianello solo una donna, che, uscita dalla ‘volta’ della fontana, procedeva con in capo il suo bacile pieno d’acqua. Incrociandoci all’uscita della piazza, ci disse: “Andate già a guardare!?”. E proseguì, per entrare in paese.
Andando la Pina disse, con orgoglio: “Anch’io so già portare in testa. Ogni tanto faccio le prove con il bacile pieno a metà, in giro attorno al tavolo di cucina. La mamma mi dice che già vado bene”. “Ma i maschi non portano in testa”, dissi io, “Non è roba da maschi”.
Giunti alla ‘gabina’, si entrò nella via nuova. Ora andavamo lungo il ‘pianón’. Io ripresi il discorso: “Come i giochi che fate voi femmine quassù nel ‘pianón’ o nel sagrato della chiesa... Per un maschio non sono adatti...”. E lei assentiva e mi guardava con negli occhi la luce dell’ammirazione, come di fronte ad un essere troppo superiore a lei, che era semplicemente una femmina, mentre io ero un maschio; e che, inoltre, era più piccola di me, che avevo tredici anni e lei ne aveva undici.
I giochi delle bambine... Quando ne parlavo, una significazione di disprezzo era nel tono della mia voce e nell’espressione del mio viso, come di fronte a cosa troppo indignitosa. I nostri giochi, invece... Quanto erano più nobili e come dimostravano il nostro coraggio! Il maschio, infatti, è nato per avere coraggio; la femmina è nata per essere timida e per avere paura.
Con Berto, per esempio... Berto sì che era coraggioso! Con Berto, quando arrivavamo nella piazza della chiesa o altrove nel paese, dopo essere stati tutto un pomeriggio nei boschi a caccia di nidi e di serpenti; che avevamo scalato olivi e castagni e pini e querce e olmi e ci eravamo introdotti in anfratti di rovi e avevamo distrutto nidi e avevamo catturato implumi destinati a morire; e avevamo catturato bisce e le avevamo uccise e le portavamo in giro appese ad un bastone e avevamo nel sangue la passione della forza bruta del maschio e della prepotenza… Quando poi arrivavamo nella piazza o dov’erano esse, le ragazze, che giocavano alla ‘parentè’ o ad altri giochi di femmine; noi, per ostentare anche con loro la nostra forza e la nostra brutalità, entravamo nel mezzo alle femminili costruzioni e gettavamo fra loro i serpenti e gli uccelli morti, scompigliando ogni cosa e terrorizzando; e loro, di fronte all’oltraggio, reagivano solo strillando e fuggendo e chiedendo aiuto alle mamme; le quali, in fondo, parteggiavano per noi maschi: “Siete voi sceme ad avere paura: loro, lo sapete, sono maschiacci”; e noi ci sentivamo forti, ci sentivamo degli eroi; e pensavamo che catturare degli implumi, distruggerne i nidi e farli morire per gioco; e pensavamo che catturare serpenti e poi ucciderli e poi andare in giro a terrorizzare le bambine nostre coetanee e a distruggere i loro giochi fossero imprese ammirabili.
Intanto eravamo giunti al ‘Colletto’ e stavamo per imboccare la montata che scende giù a Isola. Le pecore avanti divise in due gruppi, la Pina procedeva accanto a me in silenzio. Ogni tanto mi guardava, quasi volesse da me la conferma che tutto andava bene. Anch’io ogni tanto la guardavo; guardavo la semplicità e l’accuratezza con cui era vestita; guardavo la sua personcina agile e armoniosa, guardavo la grazia e la sveltezza dei suoi piedini di ragazza e l’eleganza con cui camminava scalza; e guardando facevo i miei confronti fra lei e il fratello Berto: quei suoi piedacci di maschio grossi e sgraziati, che quando camminava li posava giù forti e pesanti, che sembravano le zampe di un elefante; e poi come andava vestito: sempre unto stracciato e sbrindellato; e sporco nella persona, che non si lavava mai; con quei capelli folti e arruffati, che non conoscevano né acqua né barbiere. “Si lavano le ragazze, perché sono vanitose e vogliono apparire”, diceva. Ed io non ero meno sordido di lui; perché, più piccolo, guardavo a Berto come ad un mio maestro e seguivo con entusiasmo i suoi consigli e i suoi insegnamenti.
Le chiesi: “Tu ti lavi al mattino?”; “Perché, tu non ti lavi?”. Mi vergognai a dirle di no; che solo raramente mi lavavo; solo quando me lo ordinava la mamma; oppure se era lei che, di forza, mi prendeva e mi lavava il viso. Ma la Pina, senza aspettare la mia risposta, disse: “Io mi lavo, usando il sapone palmolive. Non si sente?”. Forse l’afrore delle pecore e mio coprivano il profumo della Pina. Dissi: “Con le pecore non si sente; ma aspetta...”. Le andai di fronte; la tenni ferma con le mani per le spalle; accostai il mio viso al suo viso; e annusai: un profumo di fresco come di fiori in primavera. “Si sente”, dissi in tono indifferente. Ma quel suo viso di femmina così vicino al mio, quei suoi occhi profondi e pieni di luce, quel suo taglio della bocca delicato di ragazza, quel suo respiro caldo e che sapeva di buono... io, mi parve di sentire anche un altro profumo, oltre quello del sapone palmolive, un profumo più intenso e più soave... Certo, andare al pascolo con la Pina non era la stessa cosa che andare al pascolo con Berto.
Sulla curva del Colletto la Pina passò avanti per guidare le pecore giù per la montata. Poi alla prima svolta della via, dove nell’angolo c’è il sedile in pietra, con al di sopra, in un’edicola pure in pietra, l’immagine in marmo bianco della Madonna con il Bambino, mi aspettò. Disse: “Qui fa sosta la gente, quando vengono su da Isola con in collo il loro carico e sono stanchi”. Poi aggiunse, guardando alla figura della Madonna, “E intanto che si riposano, dicono una preghiera”. E anche lei si fece il Segno della Croce. E indugiò a guardare alla Maestà, che, nella chiarità del mattino, splendeva candida sul grigio smorto delle pietre. Le
pecore, non sentendo la presenza itinerante della loro pastorella, si erano fermate. Poi mi chiese: “Tu le dici le preghiere?”, “Qualche volta. Quando mi ricordo”. “Io sì, prego. Le so quasi tutte a memoria. E alcune le so anche in latino, l’‘Ave Maria’ per esempio. “E dove le hai imparate?”. “Nel libretto delle ‘Massime eterne’. Era di mia madre quando ha fatto la prima Comunione. Lo porto spesso con me… Io prego alla sera prima di mettermi sotto nel letto e al mattino quando mi alzo. E’ don Tito che ci ha raccomandato di pregare... Per non fare peccati e per non commettere atti impuri”. “Anche a noi ragazzi ha detto degli atti impuri... Ma cosa sono gli atti impuri?”. “Io gliel’ho chiesto; ma lui ci ha detto che non lo dobbiamo ancora sapere, perché sono troppo brutte cose; sono il diavolo in persona, coperto di peli neri, con il muso e le zampe di caprone, con le corna, la coda, il forcone e tutto quanto”. “.
Intanto avevamo ripreso a scendere. Al bivio lì vicino ci immettemmo nella via verso il Cantinón. Poco oltre, si entrò a sinistra nell’oliveto della Geltrù. Sembrava di essere in un paradiso terrestre: piante alte e ombrose; le piane, ampie e ben modellate, erano fresche ed erbose; le pecore subito furono intente a brucare. La Pina si mise a sedere sull’erba e si tolse la borsa da tracolla: la posò per terra accanto a sé. Io mi tolsi dalle tasche dei calzoni il pane della merenda; lo posai vicino alla borsa della Pina. Anche lei tirò fuori il suo pane... Assieme al pane , tirò fuori anche un libretto dalla copertina nera, della forma di un libretto di preghiere. Disse: “Sono le ‘Massime Eterne’, che ti ho detto: io me ne servo per le devozioni; ma mi serve anche come libro in cui mi esercito a leggere. Molte cose sono in italiano; io leggo quelle; però certe parole non le capisco; come quando qui dice dell’invocazione per gli ‘agonizzanti’”. E aperse il libro alle prime pagine e lesse con la sua limpida voce di ragazza, compitando e incespicando: “‘O san Giuseppe, padre putativo di Nostro Signor Gesù Cristo , e vero sposo di Maria Vergine, prega per noi e per gli agonizzanti di questo giorno’. Chi sono gli agonizzanti? Lo sai tu?”. Io feci di no con la testa. Poi lei, posando il libretto, disse: “Io non so neanche che è un ‘padre putativo’; a mio padre dicono il babbo della Pina oppure il babbo di Berto; al tuo, il babbo di Sereno; ma padre putativo della Pina o padre putativo di Sereno, non l’ho mai sentito…”.
...Poi, anch’io mi misi seduto, accanto alla ragazza. Guardavamo in giro stupiti di fronte alla luce, ai colori, alle voci, ai profumi di quella limpida mattina dell’incipiente estate nicolese. Un po’ parlavamo, un po’ facevamo silenzio. Le pecore intanto brucavano tranquille lungo le piane e nei poggi..
E fu lei che ad un certo punto esclamò: “Forse lassù c’è un nido!”, e mi indicò in mezzo all’infrasco di un olivo una macchia scura. “Sì”, dissi io, “dev’essere un nido. Ci guardo”; E subito, trasportato dalla mia passione di cacciatore vandalo, salii. Dissi da sull’albero: “Sono tre. Tre uccellini”; “Lasciali stare. Non li disturbare”. Non ce la feci a dar retta del tutto alla Pina; fu più forte di me; ne presi uno, me lo misi in tasca. “Te ne porto uno, a fartelo vedere”. Lo portai giù, a farlo vedere alla Pina. La quale, seduta com’era, lo prese, riunendo le due mani a coppa. Poi se lo mise in grembo. Era ancora implume; non si reggeva sulle zampine; aveva gli occhi chiusi; solo, ogni tanto, apriva l’enorme bocca, mostrando di essere, per il momento, tutto gola e tutto stomaco. “Ha fame!”, disse la Pina. E tenendolo maternamente nel grembo, lo accarezzava e lo proteggeva con le due mani; e gli parlava e gli sorrideva. Io che nella mia amicizia con la selvatichezza e la rudezza di Berto, il cui viso sembrava l’avesse per essere sempre aggrottato e adirato e le mani per abbrancare rompere e distruggere, io non avevo mai ancora notato la dolcezza del viso, né la grazia delle mani di una ragazza. E nella mia rusticità, mi trovai incantato ad ammirare quella soavità nei gesti, nell’espressione del volto e nelle parole.
Poi, quando me lo riconsegnò, risalii sull’albero, a rimetterlo nel nido. E, mentre risalivo con in tasca l’uccellino, ero tutto rosso per la vergogna, perché pensavo alle risate di Berto, che si sarebbe fatte, nel vedere questo mio comportamento da femminuccia, io che ero un maschio; e che dovevo essere cinico e indifferente.
Il giorno dopo, quando passai a chiamare la Pina e lei uscì fuori della stalla e mi salutò, poi, unendosi a me, disse: “Che profumo questa mattina, Sereno!”. Io diventai rosso fino alla punta delle orecchie e non dissi niente. Ma per aggiustarmi la testa e per presentarmi alla Pina nell’aspetto più gradevole possibile mi ero lavata la faccia e con la tricofilina che avevo sottratta al babbo, mi ero ben untati i capelli, che avevo ispidi e incolti di selvaggio.
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A SERENO ALLA PINA E A LUIGI, TRE PERSONAGGI DI RACCONTI. LETTERA CONSOLATORIA PER NON ESSERE STATI NEPPURE MENZIONATI AD UN CONCORSO LETTERARIO.
Miei cari .Dunque siete andati in Città. Anzi, io vi ci ho mandati. Ma voi ve lo sentivate che sarebbe stato un viaggio inutile. Anzi deludente. Anzi disastroso. Eppure prima di partire vi siete, come dire?, rimessi a nuovo. Avete cercato di non far brutta figura; dal momento che, nati in paesi fuori della storia e primitivi, e chiusi ad ogni tipo di modernità, dovevate presentarvi nella Città del Premio, una città illustre nella storia e sensibile ad ogni tipo di modernità del secolo presente. Comunque, fidenti, come sono a volte i contadini, nel cuore e nella sensibilità dei cittadini, siete andati. Ma cosa avete trovato? Incomprensione e indifferenza (se non ostilità). Eppure tu Pina, va bene che eri scalza, ma eri vestita sobriamente e con un certo decoro; ed eri pettinata con le tue belle trecce, capricciosamente mosse sulla schiena o sul petto; ed eri ben lavata che profumavi addirittura di sapone palmolive. Certo, ti portavi appresso le tue sei pecore e l’odore, ai cittadini abituati alle profumerie parigine... Ma avevi dalla tua, un sorriso dolce, un visino soave, avevi i tuoi occhi profondi e pieni di luce, eri casta e riservata e sentivi la religione della tua famiglia e della tua gente. Eppure, in fila con le altre concorrenti come a un concorso per miss, tu sei stata ignorata. Anzi, scartata. E forse (diciamo forse, perché non siamo nella mente dei giudici e facciamo solo delle ipotesi), forse la tua colpa era quella di non avere i capelli rossi e arruffati; le labbra pure vistosamente rosse di ragazza disinvolta; di non avere gli occhi bistrati, l’ombelico e il pube scoperti; di non indossare la minigonna mostratutto; di non avere nel viso quell’espressione ostile da femminista ammazzamaschi, che rende tanto interessanti; infine, la maggior colpa, di non essere una ragazza madre con problemi di droga. Ma queste cose, come facevi? Ai tuoi tempi manco esistevano...
Comunque, la colpa è mia, cara Pina, che non ti ci dovevo mandare. E neanche te, mio Sereno, ci dovevo mandare... Un ragazzo così sordido e primitivo, vandalo di nidi e di ogni altro indifeso animale, che quasi non conosci acqua e sapone e poi con quelle idee per la testa nei confronti delle donne... Mandarti a competere con tuoi coetanei educati alle pari opportunità di oggi, che sono pienamente d’accordo sulla parità uomo donna; riservandosi però il diritto di far loro (alle donne, voglio dire) certi scherzi, come a Garlasco o a Perugia... .
E che dire di Luigi?... Chissà, povero Luigi, come ti sarai trovato male?! con che sorrisi di sufficienza ti avranno guardato?! “Ma da dove viene costui, con queste idee per la testa e con questi sentimenti nel cuore?”. La tua Gina, ancor viva e presente al tuo amore, pur essendo morta da cinque anni. Ma quando mai?! E perciò anche tu, mio caro Luigi, figlio di un mondo in cui il matrimonio era sacro ed era per sempre, da questo mondo, in cui il matrimonio è profano ed è effimero, sei stato ignorato o addirittura rifiutato.
Ma il giudizio della giuria è inappellabile. E noi cioè io, l’autore, e voi, miei cari, ormai tre personaggi in cerca di un premio letterario, ci dobbiamo inchinare a questa inappellabilità.
NOTA. Sereno e la Pina sono i personaggi del racconto Un altro più soave profumo. Luigi è il personaggio del racconto Il presepio. Di nessuno dei due racconti al concorso è stata fatta menzione. Entrambi sono pubblicati su questo Blog.
sabato 8 dicembre 2007
IL QUI PRO QUO DI SAN PIETRO
Ma tu entra! entra! Te l’ho detto. Non startene lì impalato. E, soprattutto, non te la prendere con il nostro Pietro. E’ vecchio, ormai. Se pensi da quant’è che è qui... Anche per lui gli anni passano e diventa sempre più distratto e brontolone... E sempre più me ne combina... Tanto che, se non fosse per l’affetto, avrei già pensato tante volte di sostituirlo... Io glielo dico sempre: ‘Pietro, tu sei troppo formalista e severo... E poi quando si presentano devi stare attento a chi sono..’. Tempo fa... Ti racconto solo l’ultima... Quando si presentò qui Giacomo, il grande poeta di Recanati, il nostro Pietro, lo prese per Alessandro, quello dei ‘Promessi Sposi’; e fu subito ospitale e ossequioso: ‘Oh, Alessandro, già qui! Accomodati! Accomodati! Persone come te fanno onore al luogo. Ora viene l’angelo e ti faccio accompagnare al tuo seggio...’. E incominciò a parlare del romanzo, fresco di pubblicazione, e di Lucia, la protagonista: ‘Lei sì che è una degna figura di ragazza! Mica le sue svenevoli sorelle romantiche, sensuali e lussuriose... E poi la signora Ermengarda, quella delle tragedie; anche lei una giovane del tutto degna... E quel Carlo a trattarla così...’. E il nostro Giacomo capì subito il ‘qui pro quo’ di Pietro; e ‘Anche in Paradiso, pensò, ce lo hanno per l’insù questo tardivo convertito, questo cantore della Pentecoste’. Ma non se la prese. E da quel buontempone che in realtà era, faceva parlare il nostro ingenuo Pietro e se la rideva. Specialmente alle lodi di Lucia, lui assentiva e sorrideva in quel suo viso ironico. Lui, che, invece, le donne le aveva conosciute di tutt’altra
pasta: c’era la vanità della donzelletta e c’erano Silvia e Nerina, le quali, prima di ammalarsi, s’erano date buon tempo in radunanze e feste; poi c’era la ‘sua donna’, a cui, nelle sagre del paese, piaceva civettare coi giovanotti, adescarli e poi piantarli in asso; inoltre, la più famosa, Aspasia, con il suo perbenismo di sposa e di madre; in realtà una seduttrice senza scrupoli, colei che illuse e fece soffrire il nostro Poeta, fino a farlo approdare al ‘pessimismo universale’ e al ‘nulla eterno’, tu lo sai; infine la ‘per divina beltà famosa Elvira’, la giovane dal cuore d’oro, simulatrice d’amore e bugiarda... Fui io a questo punto a prendere per mano il nostro Giacomo e a salvarlo da quel profluvio di lodi che in realtà erano per il suo avversario. E pensa la faccia che avrebbe fatto il nostro Pietro (io non glielo dissi) se avesse saputo che l’anima a cui parlava con tanto ossequioso e religioso rispetto era in realtà quella di Giacomo Leopardi, il miscredente, l’ateo... Ah, dimenticavo... Fra Alessandro e Giacomo... Lo straordinario è che ora, nell’ironia dell’eternità, la quale ridimensiona tutte le cose del vostro mondo, loro due sono diventati amici; amici per la pelle.
Ma è il momento che andiamo, mio caro Scrittore. Ti accompagno a occupare il tuo posto assieme agli altri, in quella scelta adunanza in cui Dante, lo scomodo fiorentino, è il nostro fiore all’occhiello; e in cui, fra non molto, verrà anche la tua poetessa, quella che ha cantato ‘Cresci nel cuore il seme della morte’ e che, rivolta a me, ha invocato ‘Dammi, o Signore, il dono delle lacrime’; colei che tu chiami col dolce nome di Nanna, ancora semicieca; ma, se Dio vuole! (e qui gli strizzò l’occhio divertito), senza più dolori agli ossi e alle gambe; e senza più allergie”.
(dal racconto ‘Nell’ironia dell’eternità’, dedicato allo scrittore C. Lorenzini)
* * *
L'ULTIMO LEOPARDI.
Poi, gli anni a venire sono anni bui; siano gli anni ormai
delle 'Operette morali'. C'è
un periodo di gelo nel suo cuore; un periodo in cui non
fiorisce più la poesia. Solo pensiero. Solo meditazione e
filosofia. Ma sotto il gelo la terra è fertile, è calda, è
pronta per germogliare di nuovo: al primo tepore di nuova
primavera. E infatti in un suo soggiorno a Pisa (forse, a
creare il nuovo fiorire della primavera, il sorriso di una
donna) il poeta torna a sperare, torna a cantare. E abbiamo
l'esplosione, abbiamo il sublime Leopardi. In cui c'è la
sintesi a priori della profondità e della sincerità,
dell'inclemenza anche, del pensatore e della grandezza del
poeta. E abbiamo Il risorgimento, Pisa 1828; A Silvia,
Pisa 1828. E subito dopo, a Recanati, abbiamo Le
ricordanze, 1829; il Canto notturno, che è del 29/30;
abbiamo La quiete dopo la tempesta, e Il sabato del
villaggio, del 1829. Sono i famosi grandi idilli. Sono
canti dedicati all'amore, alla speranza, alle illusioni. E
alcuni di loro sono il risultato di un cuore che ancora
palpita e che ancora crede e spera nell'amore. Nonostante la
consapevolezza della dura realtà. I versi per Silvia, per
Nerina, per la 'donzelletta', che sono fra i più bei versi
d'amore della nostra letteratura, nascono
dall'idoleggiamento dell'eterno femminino; nascono da un
cuore pieno d'amore, un cuore in piena suggestione del
fascino femminile e che ancora spera nell'amore. Come
dimenticare i versi dedicati a Silvia? "Silvia, rimembri
ancora/ Quel tempo della tua vita mortale,/ Quando beltà
splendea/ Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,/ E tu, lieta
e pensosa, il limitare/ Di gioventù salivi?/ Sonavan le
quiete/ Stanze, e le vie dintorno,/ Al tuo perpetuo canto,/
Allor che all'opre femminili intenta/ Sedevi...". Ed io
"D'in su i veroni del paterno ostello/ Porgea gli orecchi al
suon della tua voce,/... Mirava il ciel sereno,/ Le vie
dorate e gli orti,/ E quinci il mar da lungi, e quindi il
monte./ Lingua mortal non dice/ Quel ch'io sentiva in seno./
Che pensieri soavi,/ Che speranze, che cori, o Silvia mia!".
Oppure quelli dedicati al ricordo di Nerina nella chiusa
delle Ricordanze? "O Nerina! e di te forse non odo/ Questi
luoghi parlar? caduta forse/ Dal mio pensier sei tu? Dove
sei gita,/ Che qui sola di te la ricordanza/ Trovo, dolcezza
mia? Più non ti vede/ Questa Terra natal: quella finestra,/
Ond'eri usata favellarmi, ed onde/ Mesto riluce delle stelle
il raggio,/ È deserta". O i primaverili versi del 'Sabato
del villaggio' in cui ci presenta la 'donzelletta' che torna
dalla campagna? "La donzelletta vien dalla campagna,/ In sul
calar del sole,/ Col suo fascio dell'erba; e reca in mano/
Un mazzolin di rose e di viole,/ Onde, siccome suole,/
Ornare ella si appresta/ Dimani, al dì di festa, il petto e
il crine".
Ancora la speranza, dunque. E con la speranza, la piena
del canto.
Tanto è vero che a Firenze (siamo negli anni trenta) gli
sembra di averlo trovato l'amore, finalmente. Nelle
attenzioni che la nobildonna, giovane sposa, Fanny Targioni,
maritata Tozzetti, gli riserba. Lui si infiamma; crede di
essere ricambiato; raggiunge l'apice della felicità; oramai
la sua vita si è realizzata; lo scopo per cui tanto cammino
ha percorso fra tormenti e tribolazioni è raggiunto. E
scrive quel suo canto di trionfo che si intitola Il
pensiero dominante. Un canto solenne e melodioso, come il
canto del cigno. E' l'epifania del Divino a lungo cercato.
E' la rivelazione. E' un inno alla potenza e alla bellezza
dell'amore. "Dolcissimo, possente/ dominator di mia profonda
mente;/ Terribile, ma caro/ dono del ciel". Un sentimento
che tutto lo possiede e che crede e sente ricambiato. Un
sentimento che è tutto. "Come solinga è fatta/ La mente mia
d'allora/ Che tu quivi prendesti a far dimora!/ Ratto
d'intorno intorno al par del lampo/ Gli altri pensieri miei/
Tutti si dileguàr. Siccome torre/ In solitario campo,/ Tu
stai solo, gigante, in mezzo a lei./ Che divenute son, fuor
di te solo,/ Tutte l'opre terrene,/ Tutta intera la vita al
guardo mio!/ Che intollerabil noia/ Gli ozi, i commerci
usati,/ E di vano piacer la vana spene,/ Allato a quella
gioia,/ Gioia celeste che da te mi viene!". Gli dèi
finalmente si sono accorti di lui. E gli hanno concesso il
dono unico. Quello per cui la vita può essere considerata
divina. "Quanto più torno/ A riveder colei/ Della qual teco
ragionando io vivo/ Cresce quel gran diletto,/ Cresce quel
gran delirio, ond'io respiro./ Angelica beltade!/ Parmi ogni
più bel volto, ovunque io miro,/ Quasi una finta imago/ Il
tuo volto imitar. Tu sola fonte/ D'ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia". Ecco. Come Dante, che
finalmente vede il mistero; anche lui, il Leopardi, è
ammesso alla presenza del divino. "Apparve/ Novo ciel, nova
terra, e quasi un raggio/ Divino al pensier mio".
Ma Fanny non è Beatrice, la compagna di Dante ad attingere
il sublime; Fanny, pur affascinante, è una donna, con tutti
i pregi e i difetti delle donne di questo mondo; fra cui la
leggerezza, fra cui la sprovvedutezza, fra cui la vanità; la
vanità di essere nelle attenzioni e di essere corteggiata da
un uomo come Leopardi. E di lusingarlo. "E mai non sento/
Mover profumo di fiorita piaggia,/ Né di fiori olezzar vie
cittadine,/ Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno/ Che
ne' vezzosi appartamenti accolta,/ Tutti odorati de' novelli
fiori/ Di primavera, del color vestita/ Della bruna viola, a
me si offerse/ L'angelica tua forma, inchino il fianco/
Sovra nitide pelli, e circonfusa/ D'arcana voluttà; quando
tu, dotta/ Allettatrice, fervidi sonanti/ Baci scoccavi
nelle curve labbra/ De' tuoi bambini, il niveo collo
intanto/ Porgendo, e lor di tue cagioni ignari/ Con la man
leggiadrissima stringevi/ Al seno ascoso e desiato". (da
'Aspasia'). Ma in quanto ad amarlo, a ricambiare la sua
terribile passione... E' un'altra cosa. Fanny... Era solo
civetteria, la sua... Tragica rivelazione. Caduta di ogni
possibile illusione. La vita? Oramai buio e nulla.
L'universo? Nulla anch'esso: "Or poserai per sempre,/ Stanco
mio cor. Perì l'inganno estremo,/ Ch'eterno io mi credei.
Perì. Ben sento,/ In noi di cari inganni,/ Non che la speme,
il desiderio è spento./ Posa per sempre. Assai/ Palpitasti.
Non val cosa nessuna/ I moti tuoi, né di sospiri è degna/ La
terra. Amaro e noia/ La vita, altro mai nulla; e fango è il
mondo/ T'acqueta omai. Dispera/ L'ultima volta. Al gener
nostro il fato/ Non donò che il morire. Omai disprezza/ Te,
la natura, il brutto/ Poter che, ascoso, a comun danno
impera/ E l'infinita vanità del tutto". ('A se stesso').
Caduta l'ultima illusione con Fanny, non resta che il
pessimismo universale, non resta che il porto della morte.
E' da questo ultimo idolo infranto che nasce il così detto
'ultimo Leopardi'; il Leopardi dell'ultima disperazione; il
Leopardi del nulla eterno. Quello degli ultimi canti, a
questo proposito più significativi; e che in fondo sono i
canti della disperazione: "Amore e morte", che è un
idoleggiamento, un accarezzamento sentimentale di queste due
'divinità': il 'fanciullo Amore' e la 'bellissima
fanciulla': "Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/
Ingenerò la sorte./ Cose quaggiù sì belle/ Altre il mondo
non ha, non han le stelle./ Nasce dall'uno il bene,/ Nasce
il piacer maggiore/ Che per lo mar dell'essere si trova;/
L'altra ogni gran dolore,/ Ogni gran male annulla./
Bellissima fanciulla,/ Dolce a veder, non quale/ La si
dipinge la codarda gente,/ Gode il fanciullo Amore/
Accompagnar sovente;/ E sorvolano insiem la via mortale,/
Primi conforti d'ogni saggio core". IL canto 'A se stesso',
che abbiamo riportato per intero. "Aspasia", che, fra
l'altro, è un grido di dolore di fronte all'indegnità della
donna, che, come donna, mai non merita i sublimi moti che
l'uomo le ha dedicato e le dedica: "A quella eccelsa imago/
Sorge di rado il femminile ingegno;/ E ciò che inspira ai
generosi amanti/ La sua stessa beltà, donna non pensa,/ Né
comprender potria. Non cape in quelle/ Anguste fronti ugual
concetto. E male/ Al vivo sfolgorar di quegli sguardi/ Spera
l'uomo ingannato, e mal richiede/ Sensi profondi,
sconosciuti, e molto/ Più che virili, in chi dell'uomo al
tutto/ Da natura è minor. Che se più molli/ E più tenui le
membra, essa la mente/ Men capace e men forte anco riceve".
Sono versi ingenerosi, in cui il poeta lancia la sua
vendetta, amara, della sua amara delusione. Come "Sopra il
ritratto di una bella donna", in cui si vendica della
bellezza femminile: il ritratto sulla tomba è quello di una
bellezza superba e conturbante; ma, sotto il marmo? "Tal
fosti: or qui sotterra/ Polve e scheletro sei. Su l'ossa e
il fango/ Immobilmente collocato invano,/ Muto, mirando
dell'etadi il volo,/ Sta, di memoria solo/ E di dolor
custode, il simulacro/ Della scorsa beltà. Quel dolce
sguardo,/ Che tremar fe, se, come or sembra, immoto/ In
altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto/ Par, come d'urna
piena,/ Traboccare il piacer; quel collo, cinto/ Già di
desio; quell'amorosa mano,/ che spesso, ove fu porta,/ Sentì
gelida far la man che strinse;/ E il seno, onde la gente/
Visibilmente di pallor si tinse,/ Furo alcun tempo: or
fango/ Ed ossa sei: la vista/ Vituperosa e trista un sasso
asconde". Ingenerosità e vendette che derivano dall'amarezza
della delusione. E poi 'Palinodia al marchese Gino Capponi’,
versi sarcastici e amari, in armonia con il suo stato
d'animo, contro i filosofi dell'ottimismo. E poi 'Il
tramonto della luna', in cui, con spietata melodia di verso,
dice che dopo l'effimera giovinezza, le uniche realtà
riservate all'uomo sono la vecchiaia e la morte: "Voi,
collinette e piagge,/ Caduto lo splendor che all'occidente/
Inargentava della notte il velo,/ Orfane ancor gran tempo/
Non resterete; che dall'altra parte/ Tosto vedrete il cielo/
Imbiancar novamente, e sorger l'alba:/ Alla qual poscia
seguitando il sole,/ E folgorando intorno/ Con sue fiamme
possenti,/ Di lucidi torrenti/ Inonderà con voi gli eterei
campi./ Ma la vita mortal, poi che la bella/ Giovinezza
spari, non si colora/ D'altra luce giammai, né d'altra
aurora./ Vedova è insino al fine; ed alla notte/ Che l'altre
etadi oscura,/ Segno poser gli Dei la sepoltura".
E, in ultimo, il sublime nulla nella poesia suo testamento
spirituale, 'La ginestra'. Che è il suo religioso canto di
congedo da tutti i sogni di quaggiù, dalle speranze, dalle
illusioni, dall'amore. Dalla vita.
E tu, lenta ginestra
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Con la dignità e l'aristocratica consapevolezza di un saggio
antico. Perché lui, contrariamente alla generalità degli
uomini, volle piuttosto la luce che le tenebre.
(dallo studio intitolato Dominator di mia profonda mente, del 2004).