giovedì 31 gennaio 2008

IL GRANDE DEBITO.

LA FEMMINA. QUALCHE PUNTO IN PIU’

Ricordo (era il tempo della mia adolescenza e della mia gioventù), ricordo che l’idea della superiorità maschile era una verità comunemente accettata e indiscussa. Si succhiava con il latte materno. Era frequente in una famiglia dov’erano figli maschi e femmine, sentire le parole rivolte alla femmina: “Ma tu non puoi pretendere di fare come tuo fratello: lui è un maschio!”. E si trattava quasi sempre di libertà personale negata: le donne nella maggior parte dei casi, a seconda del loro stato sociale, per uscire, dovevano essere accompagnate dai famigliari, oppure dal marito; oppure, se erano donne sole, da altre donne amiche; mentre i maschi, fin da adolescenti, avevano le chiavi di casa e potevano uscire ed entrare a loro piacimento. Ed era frequente sentire, sempre rivolte alla ragazza: “Non puoi pretendere che lui faccia queste cose; questi sono lavori da donne”. E si trattava per lo più di lavori domestici, considerati servili, cioè quei lavori che, in una famiglia benestante e che se lo poteva permettere erano riservati a quelle che oggi si chiamano collaboratrici famigliari, ma che allora si chiamavano ‘serve’. Tutte cose che toccavano alle donne di casa (nonna, madre, sorella). L’uomo faceva cose importanti e pesanti, e le faceva fuori di casa; e, soprattutto, faceva il soldato. Come segno ulteriore della subalternità della femmina c’era anche il fatto che a Scuola le ragazze dovevano studiare meno anni dei maschi: mentre il maschio compiva il ciclo elementare con la quinta; la femmina si doveva fermare alla terza. E anche in seguito, nonostante le cose migliorassero notevolmente, la femmina studiò fermandosi ad un ciclo sempre inferiore rispetto al maschio; fra i due, inoltre, era quasi sicuramente il fratello che andava all’università; per lei, per la sorella, era sufficiente un diploma. E anche il buon Dio pareva avere un giudizio non troppo lusinghiero nei confronti delle donne, se in chiesa le femmine non potevano avvicinarsi all’altare durante le funzioni, né essere parti attive dei riti.

Andando su con gli anni, per la donna le cose non cambiavano (o di poco). Infatti la ragazza appena fidanzata abbandonava la propria volontà all’arbitrio dell’uomo cui si era promessa. Nel matrimonio, poi. la sposa era sottoposta all’autorità del marito. Senza il consenso del quale non ardiva di fare alcunché. Non era libera nei suoi movimenti; ne doveva render conto allo sposo. La volontà del quale non si discuteva; e la moglie non poteva intervenire a modificarla. Inoltre se il marito era in pubblico assieme ad altri uomini, la moglie non ardiva contattarlo. Ad esempio, non osava andarlo a chiamare (magari perché era l’ora del pranzo, oppure perché la cena era pronta), se era in compagnia di altri amici, all’osteria o altrove. Queste iniziative venivano considerate menomazione dell’autorità maritale: “Ti fai dare ordini dalla moglie?!”. “Ma chi li porta in casa tua i pantaloni? Tu o tua moglie?”. Trasgressioni in questo senso potevano venir punite con le botte. Ché il marito aveva ‘tutto il diritto’ di picchiare la moglie. E, nel giudizio comune, quel marito che picchiava la moglie “aveva sempre le sue buone ragioni”.

Ma, a questo punto, la situazione sembrava capovolgersi. Infatti, la donna che prendeva le botte non perdeva di prestigio nella considerazione pubblica. Anzi... Un occhio nero o dei lividi nel corpo potevano significare soggezione dell’uomo al fascino sessuale di lei. Un marito che tornava dall’osteria un po’ bevuto, era spesso anche eccitato e incalorito; e quindi, per sue sospettose fantasie, pronto per un nonnulla ad attaccar lite con la moglie e facile a metterle le mani addosso. La mamma, riferendosi ai suoi primi anni di matrimonio (e parlava dei tempi intorno agli anni trenta; in seguito poi il babbo cambiò atteggiamento, diventò marito amorevole e saggio; ma in seguito un po’ tutta la civiltà si ammorbidì e la donna sempre più nella coscienza comune diventava di pari dignità e di pari diritti e doveri con l’uomo), la mamma, dunque, ci raccontava spesso, quando eravamo più grandi ed avevamo l'età per poter capire, che la domenica, quando il babbo tornava in casa per la cena, dopo essere stato all’osteria, era quasi sempre litigioso e manesco; e che solo la sera a letto riusciva a placarlo; e “allora, durante l’amore e dopo, diceva la mamma, ridiventava affettuoso e dolce come un bambino". Nelle cose del sesso, dunque, la donna sembrava dominare.

E infatti le colpe del sesso e dell’amore erano sempre a carico della donna, come all’unica regista: era la donna l’essere pericoloso che invischiava l’uomo, lo attraeva nella rete e lo portava alla rovina.

Dunque, negli affari del sesso e nei rapporti amorosi, nonostante la facciata, non sembra che ci fosse molta superiorità maschile; e l’uomo nonostante avesse la fama di essere cacciatore, in realtà era considerato preda della femmina.

Ma anche nell’ambito della vita domestica la superiorità dell’uomo era molto discutibile. Era molto più apparente che reale. Le donne, infatti, a forza di fare al posto dell’uomo, diventavano arbitre della sua vita. E l’uomo, a forza di farsi servire dalla donna, poi lui non era capace di fare più niente. Per cui, in mancanza della moglie (per malattia o morte), se non c’erano altre donne a prendersi cura di lui, il marito si riduceva alla mercé di chiunque. Diventava un ramo tagliato via dal proprio albero.

Poi... Poi con il progresso economico e sociale, anche nelle mie contrade come dappertutto da noi le cose cambiarono. E oggi sembra quasi che sia la donna ad avere la superiorità nei confronti dell’uomo.

Quale è dunque la conclusione? Non saprei che dire. Se non che ci vorrebbe più equilibrio da una parte e dall’altra. Anche perché la Natura è saggia; e quindi anche nei rapporti fra maschio e femmina ama la legge della reciproca necessità e della collaborazione. Pur nella diversità.

E io, per quel che mi riguarda, devo dire che per un certo periodo della mia vita ho coltivato con orgoglio, come fosse una mia conquista, la ‘fortuna’ di essere maschio. Ma, dopo l’impatto con il problema donna e il problema amore, ho capito con chiarezza che non era proprio il caso di parlare di superiorità o di inferiorità, per nessuno dei due sessi. Il maschio e la femmina erano alla pari di fronte alle sgarbatezze che serbava loro la vita, indifferentemente. Semmai, se proprio c’era da stabilire una superiorità, a me sembrava che qualche punto in più lo avesse la femmina.

Ma questo a livello interpersonale. Mentre, a livello di civiltà, le cose stanno molto diversamente. A livello di civiltà c’è un grande debito da pagare... Ma di questo parleremo in seguito.

Maggio 2007.

LANAM FECIT

Continuando a meditare sul problema, mi sembra di dover dire che in noi cristiani occidentali il senso di superiorità del maschio rispetto alla femmina è così radicato che neanche ci accorgiamo di possederlo. Lo abbiamo in noi, naturalmente. Perché le civiltà, di cui noi siamo figli, greco-romana ed ebraico-cristiana, sono all’insegna del maschio. Il padre degli uomini e degli dèi, Zeus/Giove, è maschio. Al maschile è il concetto di Dio degli Ebrei e dei Cristiani (ma Giovanni Paolo I, nel brevissimo tempo del suo pontificato, parlò che Dio poteva essere padre e madre insieme). Nella Bibbia i ‘protagonisti’ sono maschi. Maria, madre di Gesù... le decisioni sono state prese dall’eterno Consiglio al di fuori di lei. Nell’Iliade a proposito dell’importante duello fra Paride e Menelao, si stabilisce che Elena con tutte le sue ricchezze andrà al vincitore. Mentre nell’Odissea Penelope, accertata la morte di Ulisse, dovrà scegliere come marito uno dei Proci. Le donne non hanno una loro volontà. In Roma la massima lode per una donna era potersi, in morte, fregiare della scritta DOMI MANSIT LANAM FECIT/ FU DONNA DI CASA LAVORO’ LA LANA. E, in Livio I, 57, quei giovani mariti che avevano scommesso sulla castità e morigeratezza delle loro mogli mentre loro erano al fronte (“la mia è più seria delle vostre”), avevano dovuto ammettere che solo Lucrezia, moglie di Collatino, aveva ottenuto la palma della vittoria; perché, mentre avevano trovato le altre che, in assenza dei mariti, si davano buon tempo, giunti inaspettati a Collazia, a casa di Lucrezia, l’avevano trovata che assieme alle sue ancelle, pur essendo notte avanzata, vegliava al lume della lucerna lavorando la lana: Pergunt Collatiam, ubi Lucretiam nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem inveniunt. E perciò Muliebris certaminis laus penes Lucretiam fuit.

La donna esclusa dalla vita sociale e relegata in casa. Una specie di angelo del focolare.

Siamo impastati di superiorità maschile. E solo con un atto di volontà possiamo pensare diversamente.

E in queste mie riflessioni, mi viene anche in mente che noi al liceo, suggestionati dalle figure di Dante, di Boccaccio, di Petrarca, dell’Ariosto, del Tasso ..., si diceva, e anch’io lo dicevo, che ‘per forza l’uomo è superiore alla donna; infatti, potevamo forse immaginare una donna come poeta della Divina commedia oppure come scrittrice del Decameron? o come autrice dell’Orlando furioso o della Gerusalemme liberata? No. E dunque... E di tanto eravamo contenti, perché ci sembrava una verità così semplice e ovvia che non c’era bisogno di doverla convincere.

Mentre invece non è una verità ovvia. Perché non è neanche una verità. E’ solo il risultato di un’enorme prevaricazione, di un’indebita spoliazione; che ha sottratto alla Civiltà (e sta ancora sottraendo) una buona metà delle sue risorse umane: quelle nel cuore e nell’intelligenza delle donne. Nessuna donna fu Dante, perché non si è permesso loro di poterlo essere.

E sono sicuro che tutte le donne che non furono e che non poterono essere Dante, Petrarca, Ariosto, Alfieri, Leopardi; che non poterono essere Platone o Kant, oppure Archimede o Galileo, che non poterono essere Annibale o Napoleone, reclamano al cospetto della Storia e della Civiltà di essere vendicate di questa loro spoliazione subita.

E siamo tanto abituati a elogiare l’uomo e a lasciare in ombra la donna, che anche per le donne della fantasia siamo in un certo senso ingenerosi. Quando pensiamo per esempio a Laura del Canzoniere oppure a Silvia degli Idilli, diciamo “è il Petrarca che l’ha creata” oppure diciamo “è il Leopardi che l’ha creata”. E non ci viene in mente di pensare il viceversa. Non ci viene in mente di dire che queste donne sono loro, per come erano fatte nella realtà, che hanno messo dentro i loro poeti quel cuore che poi le ha cantate.

Provatevi a levare Beatrice dalle vie di Firenze, oppure Laura dalle piazze di Avignone, e non avete più neanche Dante e neppure il Petrarca. E così si può dire per la maggior parte dei poeti. Si può quasi dire che ogni poeta è il risultato della donna o delle donne che lo hanno creato.

E’ vero. Nei confronti dell’universo femminile noi, nonostante le conquiste di questa nostra civiltà, abbiamo un grande debito da pagare. E non so se e quando saremo in grado di poterlo pagare. 09.01.08. Autore. Carlo Lorenzini.

lunedì 7 gennaio 2008

GLI ANTICHI FOCOLARI.

Era un'avventura eccitante. E nel mio cuore ero felice al

pensiero di quel bottino di tante castagne, grosse, lucenti

e dal gusto fragrante. Pregustavo la gioia delle molte

serate che avrei passato in solitudine accanto al fuoco, a

far cuocere quei dolci frutti. Io e il fuoco, e i miei

pensieri e i miei sogni, odorosi della legna dei nostri

oliveti e dei nostri boschi. Io in contemplazione e in

attesa; e, attorno, morbidi profumi di castagne e di allori;

e fuori, intanto, il paese, immerso in serate umide e

nebbiose; oppure, frastornato nel cielo da scrosci di

pioggia; o urlato dal vento freddo di tramontana; o

dall'umido vento di scirocco, sprigionato da lontano, dal

mare in tempesta.

Era quasi un rito, ogni sera.

Verso le sei la mamma lasciava un momento il negozio e

saliva in cucina, dove oramai avevo finito di fare i

compiti. Ravvivava le braci; o accendeva la legna; sceglieva

le castagne; sceglieva le cime di alloro; e poi versava

tutto nel paiolo, già pronto appeso alla sua catena con la

necessaria quantità di acqua opportunamente salata; quindi:

"Li hai fatti i compiti? Ci badi tu alla cottura?! Io devo

tornare in negozio": tornava giù, in bottega.

E io rimanevo solo, col calore del fuoco; con i colori

della fiamma; con l'incanto e con la musica del caminetto;

mentre il profumo della castagne conduceva la mia fantasia a

spazi aperti di pianure, di colline, e di montagne.

Dalle strade del paese, già buie e deserte, un silenzio

primordiale; spesso rotto dal brontolio e dal fischio del

vento: le ventate si ingolfavano e rumoreggiavano sordamente

dentro la cappa, mentre la fiamma aveva degli improvvisi

ondeggiamenti, e la legna emetteva vapori e stridii, come in

uno spasimo di martirio.

E io accudivo alla cottura; e un po' guardavo la fiamma;

un po' sonnecchiavo; un po' pregavo, perché "Senti questo

lamento della legna?", mi diceva spesso la nonna, "E' la

voce delle anime del Purgatorio, che invocano preghiere!";

un po' mi perdevo...

Poi, verso l'ora, stavo con le orecchie tese, per sentire

se da giù, dalla buia solitudine della via, percepivo il

caratteristico raschio di gola di mio padre, che arrivava

dal giro quotidiano.

Mio fratello, già apprendista in un'autofficina, arrivava

di solito con lui.

E solo quando udivo quel raschio, il mio cuore

ricominciava a battere normalmente, come per un indistinto

timore cessato.

Poi le castagne erano cotte; il babbo e mio fratello erano

tornati; la mamma aveva chiuso il negozio ed era risalita;

la famiglia, eravamo tutti riuniti.

E mentre la mamma preparava la cena e metteva tavola; e

mentre le castagne, oramai pronte, rimanevano accanto al

fuoco al caldo nella loro acqua di bollitura, io e mio

fratello ci si scaldava, si faceva il conto delle ballotte

che sarebbero toccate ad ognuno, si litigava; e il babbo era

assorto nella lettura del 'Grand Hotel', e ogni tanto ci

sgridava: "Ma non la finite mai, voi due, di litigare!?".

E io, nei momenti di calma, guardavo il fuoco; guardavo il

babbo che leggeva il 'Grand Hotel'; guardavo la mamma che

sfaccendava in cucina; dicevo a mio fratello: "Sei scemo!";

"Ridillo!, e ti riempio di botte!"; pensavo all'allegria

della cena; e un misto di sicurezza, di gratitudine, di

tenerezza riempiva il mio cuore:

ero felice che tutti eravamo lì riuniti; che la legna

ardeva nel caminetto; che nella casa c'era un morbido

profumo di castagne cotte e di alloro; che il babbo era

seduto a leggere il suo 'Grand Hotel'; che la mamma stava

preparando la cena; che io e mio fratello eravamo seduti

vicini a scaldarci, a dire scemenze e a litigare; che quel

focolare, quella casa e quelle persone mi amavano e mi

proteggevano; e che io li amavo...

Le castagne erano il simbolo di quelle riunioni, di quella

intimità, di quella serenità e sicurezza.

(dal racconto ‘Le castagne’, 1985, edito ne ‘Il ritorno di Ulisse’).

***

Oh, quelle lunghe serate invernali passate noi due, Regina ed io,

seduti presso al suo focolare! Nelle vie fiocamente illuminate e deserte

il sibilo ostinato e lamentoso dell'umido scirocco o del raggelante

tramontano; appeso alla catena il paiolo degli 'erbi' di campo: bolliva

in un sonnolento brontolio; mentre la 'serva', che poi era l'affezionata

e famigliare anziana nutrice, riuniva le braci, per far cuocere le

focaccine di pasta azima, granoturco misto a grano, acqua e sale,

obbligato ingrediente a quella pietanza agreste, condita con il

profumato olio dei nostri oliveti; e, di fronte a quell'ardente mistero,

i nostri lunghi silenzi, miei e suoi, assorti nella distratta

contemplazione dei mobili giochi delle fiamme; i miei pensieri ai suoi

pensieri; e i miei sguardi a tutta la sua persona, che nella discinta

libertà della nostra confidenza, offriva tutta se stessa ai miei occhi e

a quel domestico colorato riverbero.

E ancora ho nella memoria la forza sensuale della fiamma davanti agli

antichi caminetti nelle silenziose intimità di fuligginose cucine.

Le donne vi si spogliavano come davanti alla forza ipnotica di un

irresistibile amante. La donna davanti al fuoco, davanti all'elemento

compagno della primordialità dell'uomo, smetteva i vincoli della

riservatezza e del pudore e ridiventava la creatura della terra, la

forza ancestrale dell'istinto, della seduzione, e della perpetuazione

della specie; e si abbandonava alla violenta esibizione delle sue

sessualità, simboli della generazione e della continuità della vita.

Ed io ricordo sempre come viva memoria della mia infanzia, la generosa

ed ebbra nudità di mia madre: quel suo bel seno grande e candido e

quelle sue cosce tenere e verginali, sino quasi allo scollo delle

mutandine di panno fiorito: durante le oziose serate invernali, davanti

al fuoco del caminetto.

E a Regina succedeva la stessa cosa. Seduta davanti al fuoco, prima le

si accendeva tutto il viso, come in preda a un dolce assaporamento di

piacere; poi la magia del calore si impadroniva di tutto il suo corpo; e

allora, come rapita in uno stupido incantesimo, si scopriva nel petto,

sino alle coppe del reggiseno, e davanti, fin molto sopra le ginocchia;

e così, la testa reclinata da una parte, gli occhi prigionieri del

sortilegio della fiamma, le mani mollemente rilassate in grembo, offriva

a quella violenta e viva eccitazione del calore, come a dolci carezze di

amorose insidie, l'accensione del viso, lo splendore degli occhi, la

libertà dei piccoli seni, l'ampia apertura e la oscura intimità delle

giovani cosce.

Pensavo a queste cose, a questo interno invernale, mentre seduto in

corriera, la testa appoggiata al vetro del finestrino, nel cuore la

consapevolezza che una esaltante vicenda d'amore era terminata o stava

per terminare, tornavo verso casa.

(dal racconto inedito ‘Regina’, 1990)

***

... infine, il rientro a casa, dove mia madre aveva già acceso, ad accoglierci, un grande e vivace fuoco di profumata legna di bosco.

E poi, io a leggere accanto al fuoco; e anche Carla a leggere o a studiare accanto al fuoco, oppure seduta al tavolo a correggere i compiti; e mia madre anche lei accanto al fuoco a fare la maglia o a cucire oppure anche lei a leggere i suoi libri dal sapore ottocentesco; e che ogni tanto da dietro gli occhiali guardava me e guardava Carla e nei suoi sogni e nelle sue speranze non diceva niente; e, alternato alle rare parole mie o di Carla che chiedeva cose: un dubbio nella correzione dei compiti, un dubbio nell'interpretazione di un passo, una riflessione che amava esprimere a voce alta: il silenzio: solo lo stormire della grande acacia spoglia, lì fuori quasi sulla soglia della porta, quando c'era vento; solo il bruire dell'acqua nella via e contro i vetri delle finestre, quando pioveva; solo, nel buio della sera, a intervalli regolari, il rintocco delle ore dal campanile subito sopra di noi; solo, giù nella via, il rumore dei passi o delle voci di qualche passante che si affrettava verso casa; e, inoltre, il crepitio del fuoco e il brontolio delle castagne o degli 'erbi' nel paiolo, e il profumo di campi o di selva che si spandeva, caldo e intimo, in tutta la cucina...

E infine, erano le diciannove; e Carla aveva finito il suo lavoro o lo smetteva; si alzava e preparava la cena, programmata il giorno avanti, come del resto il pranzo...

(dal racconto inedito ‘Un autunno per Antonia’, 1996).

***

Salutammo: "Grazie del caffè e della conversazione. E buona serata". "Grazie a voi. Ma piove ancora. Aspettate che cessi del tutto". "Non importa. E' un'acqua che non fa paura. E poi abbiamo gli ombrelli". E uscimmo.

Prendemmo subito a destra, per la via del cimitero. Era quasi notte. Il brusio delle pioggia tra le masse degli ulivi oramai neri, e rare voci dagli interni del paese. Dissi:

- Camminando così vicini, i due ombrelli danno fastidio. Ne basta uno.

E senza che lei se lo aspettasse e potesse reagire, chiusi il mio ed entrai sotto il suo piccolo e graziosamente fiorito; e, approfittando del buio e della solitudine e con la scusa di entrare più agevolmente entrambi sotto la protezione del suo paracqua, le misi un braccio attorno alla vita e la strinsi a me. Carla neanche qui ebbe reazioni. Non disse nulla. Camminava stretta a me calma e silenziosa. Ed io, anch'io camminavo, stretto a lei, silenzioso; sotto quella pioggia che, secondo le previsioni degli amici nell'osteria, durante la notte si sarebbe mutata in neve.

Camminavo stretto a lei, nonostante il cuore e il corpo ancora inquinati dagli osceni riti d'amore con Antonia e dalle liti e dai deliri; stretto a lei, nonostante la consapevolezza che anche questa con Carla era violenza, e certo non meno turpe di quella che avevo tentato con Atonia… Ma, andando, sentivo dentro il cappotto il suo corpo caldo, che sapeva di buono; e questo mi faceva sentir bene…

In casa, al caldo della cucina economica e del caminetto, la serata fu silenziosa e laboriosa. Le ore erano scandite dai rintocchi dell'orologio del campanile subito sopra la nostra casa… Una casa, la nostra, fatta per la solitudine, il lavoro, la lettura e la meditazione.

Carla, come al solito, lavorava per la scuola. Mia madre un po’ lavorava a maglia, un po’ leggeva il suo Fogazzaro.

Anch’io leggevo. Leggevo la Divina Commedia. Veramente la rileggevo.

Era dai tempi universitari che non affrontavo più la Divina Commedia in una lettura programmata e puntuale; quando l'avevo letta con la preoccupazione dell'esame e con lo spirito ancora incerto fra lo storicismo dotto e puntiglioso dello Scartazzini e del Vandelli, lo storicismo crociano del Sapegno e del Russo, e il crocianesimo eloquente e sentimentale, romantico decadente, del Momigliano. Dopo di allora, rivisitazioni saltuarie e distratte di interi episodi, singoli canti, brani, qua e là, nelle diverse cantiche. Solo ora mi ero deciso a rileggerla da capo a fondo. Avevo già riletto l''Inferno' e il 'Purgatorio'. Avevo appena iniziato il 'Paradiso'. E ora che ero uomo e che Antonia aveva drammaticamente maturato la mia personalità e aveva impietosamente scoperto tutta la mia fragilità psicologica e aveva scosso quelle sicurezze esistenziali che, giorno dopo giorno, avevo imparato dal sorriso umano e illuminato e dagli insegnamenti catechistici del parroco don Tito, nella chiesa di Carla, ora, che ero uomo, del Poeta fiorentino mi avevano impressionato, più di ogni altra cosa, più della sua cultura e più anche della sua poesia, mi avevano impressionato la grande statura morale e l'incrollabile sicurezza esistenziale. Ora sapevo che quei rudimenti della dottrina cristiana di cui noi ragazzi ancora non conoscevamo l'impatto morale nella vita di ogni uomo e che don Tito, nella loro struttura semplice e chiara di domande e risposte: "Chi ci ha creati?", "Ci ha creati Dio"; "Chi è Dio?", "Dio è l'essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra"; "E perché Dio ci ha creati?", "Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e goderlo nell'altra in Paradiso": che don Tito ci aveva fatto imparare a memoria minacciandoci busse a non finire e accompagnando con la bacchetta librata in alto come un direttore d'orchestra le nostre corali e cantilenate risposte: ora sapevo che questi rudimenti erano diventati i tre inamovibili punti su cui aveva poggiato in sicurezza tutto il piano della sua matura esistenza e della sua attività letteraria che nacque dalla conversione. E che erano anche i tre inamovibili punti, su cui aveva poggiato l'eroismo caratteristico di tutta la grande civiltà medioevale. Una civiltà piena di orgoglio e di dignità; che, nella sua sicurezza morale, aveva saputo prospettare per sé, nel caso di errori, quei castighi terribili e inesorabili, quali sono descritti nei vari gironi dell''Inferno', per coloro che si fossero allontanati dalle direttive divine. Mentre la nostra, riflettevo, al paragone, è una civiltà di pavidi e di bambini. Perché è fondata sul culto della vita nella sua fisicità e nella sua durata: oggi conta che si viva, non come si vive; perché la civiltà di oggi ha terrore della morte; è una civiltà in cui i giovani muoiono non più per un ideale, ma per motivi turpi, o disonesti, o, al limite, stupidi; una civiltà che ha in orrore il concetto della divinità ieratico e severo: il nostro Dio non è più il Dio della tradizione, giusto, severo e punitore; ma è il Cristo; che abbiamo voluto solo misericordioso e sempre pronto a perdonarci, a giustificarci, e, addirittura, ad essere complice dei nostri vizi, delle nostre deviazioni. Una civiltà malata di giustificazionismo; che riduce le punizioni dei delitti fino al limite della decenza…

Leggere Dante per me è stato come ritrovare l'uomo, il senso della vita e della sua dignità... Io, che di dignità ormai...

Provai a parlarne con Carla. Ma lei non era d'accordo con la mia severità. Che chiamava giustizialismo. La comprensione e il perdono sono il sale e il lievito della terra. E, in fondo, la nostra Chiesa è figlia del Cristo del Nuovo Testamento e non del severo Dio dell'antica Bibbia. Anche nei semplici rapporti umani, comprendere e perdonare... Inoltre, la troppa voglia di giustizia nasconde spesso un senso di colpa e sentimenti di cattiva coscienza. Carla era sempre Carla: buona e comprensiva. E, in fondo, aveva ragione: io, il libertino, che sentiva il fascino di una vita severa e morigerata e di una morale che punisce inesorabilmente le colpe; e che questa filosofia avrebbe voluto imporre anche agli altri...

(dal racconto inedito ‘Un autunno per Antonia’, 1996)

***

Ero passato da lui qualche sera prima. Lo trovai in sala, accanto al fuoco. Solo. Nella sua abituale poltrona. Il fiasco del vino nero vuoto a mezzo e il bicchiere pieno a metà erano sul ripiano del focolare, vicini alla fiamma. Accucciolata sul divano, nella sospirosa attitudine di semiaddormentata la sua cagnetta. Mi disse: "Ero a guardare la fiamma del fuoco". Poi aggiunse: "Prima di metterti qui in poltrona accanto a me, prenditi un bicchiere, che sono lì nella vetrina". Io presi il bicchiere. Lui me lo riempì. Disse: "Il vino nero va bevuto che dà sul tiepido". Io ne bevvi un sorso. Poi mi sedetti, posando il bicchiere in terra alla mia destra. Mi disse: "Ora che è inverno, alla sera dopo il giro dai vari ammalati, questo è il mio passatempo, la mia consolazione. Guardo la fiamma del fuoco e ogni tanto bevo un sorso. La fiamma è come il vino e tutti e due sono come le donne. Se non fai attenzione, ti affatturano, ti fanno il sortilegio e tu non te ne puoi più liberare”. Poi, dopo una pausa, aggiunse. “La fiamma poi è anche peggio del vino, perché ti fa vagare con la fantasia. Guidata dalla fiamma, la fantasia va a rievocare il passato; ti spinge incontro all'avvenire. Due operazioni, a questa mia età, egualmente disastrose”.

Si abbandonava ai ricordi, pur dicendo disgraziato colui che si fa mettere sotto dalla nostalgia. Figlio di contadini, rimpiangeva quel mondo difficile, in cui le ore di lavoro correvano senza interruzione dall'alba al tramonto e in cui lo studio era riservato nel tempo rubato al sonno.

Poi mi disse: “Questi tardi e nebbiosi pomeriggi invernali, sanno già l’atmosfera natalizia; e la fiamma mi riporta alla poesia di antichi focolari, non più ritrovati e mai dimenticati". Parlava nella semioscurità della sala, solo rischiarata dal riverbero del fuoco. Il vino nel fiasco e nel bicchiere scintillava il suo rosso rubino. "Bevo per dimenticare", disse, "quel mio passato che non torna, questo presente che non m’importa, e un futuro che... C'era un poeta greco, ricordo, ma non ricordo il nome, che diceva che è meglio per l'uomo morire a sessant'anni. Anche prima, dico io...". E dicendo, prese in mano il bicchiere e, prima di bere, mettendolo contro la luce della fiamma, ne guardò la luminosa trasparenza. Poi lo vuotò. Quindi lo riempì di nuovo e lo posò rosso rubino accanto al fiasco. “E’ bello il vino, disse, Anche la sua bellezza contribuisce a inebriarti. E anche la fiamma, quando è una bella fiamma. E anche una bella donna, una ragazza, una vergine, quando è bella”. In queste sue confidenze, eccetto gli accenni di quella sera, in cui le paragonò al vino e alla fiamma, mai parlò di donne e di amore.

(dal racconto inedito ‘Antichi focolari’, 2007).

***

GALAEL


E in questi tempi di gravi calamità in Italia, in cui Napoli, la città dei poeti e degli innamorati, la città del sole del mare del cielo e della poesia, sembra essere sommersa da montagne di spazzatura, in un momento in cui, per colpa degli uomini, il degrado della civiltà è qui presente e palpabile, in questo momento tragico della nostra vita, un racconto fresco e primaverile, un racconto fantastico che dice di una bambina, Alina, e di un folletto, Galael, che si incontrano in un bosco in riva ad un laghetto e diventano amici. L’ottimismo della scrittrice, Maria Giovanna Perroni, sembra proprio avere un sentimento di riguardo per l’uomo e per il suo destino. Leggete e ne resterete francescanamente ammirati.

Alina era una bella bambina di nove anni, capace di incantare con la grazia del suo portamento; ma soprattutto con lo sguardo di due occhi limpidissimi e innocenti. Era sempre serena. Ma amava la solitudine; e si rifugiava spesso nel grande bosco vicino alla villa dove abitava. I genitori ve la lasciavano andare senza timore; perché Alina era una bambina saggia; e, poi, nel bosco non c'erano animali feroci; contrabbandieri; o comunque gente pericolosa. Il luogo in cui abitavano era un luogo tranquillo e appartato. Alina faceva lunghe passeggiate, cogliendo fiori, o ammirando il rincorrersi di variopinte e grandi farfalle; oppure si sedeva in riva ad un piccolo laghetto, curiosa della vita che vi si svolgeva. Anche durante gli inverni, in quella località piuttosto miti, andava nel bosco: quando non pioveva o non nevicava. Ma un giorno, in questo suo bosco, non fu più sola. Proprio in riva al lago aveva fatto un incontro straordinario. Aveva conosciuto uno spiritello, diafano, dai capelli biondissimi, e dalle lunghe ali di libellula; che si nutriva di rugiada e del nettare dei fiori. Galael, così le disse di chiamarsi lo spiritello, le confidò che assai raramente si faceva vedere dagli uomini; di cui non si fidava. Si mostrava solo ai bambini; ed unicamente a quelli di loro che gli sembravano buoni e gentili. Del resto, viveva lunghi periodi in solitudine. Ma oramai desiderava una compagnia: voleva essere lei la sua amica? Esigeva però che Alina non dicesse mai a nessuno dei loro incontri. Altrimenti gli uomini sarebbero venuti a cercarlo; e, se lo avessero preso, avrebbe certamente fatto una brutta fine. Essi, infatti, gli uomini, sciupavano tutte le cose belle. La bambina promise. Tanto non le importava gran che delle tre o quattro amichette che aveva a scuola; inoltre con i suoi genitori non aveva molta confidenza; e poi intuiva che, comunque, una tale avventura non sarebbe stata creduta.

Così ora Alina andava ancor più spesso nel bosco. E Galael, dopo essersi assicurato che nessuno seguiva la bambina, la raggiungeva. E rimanevano insieme ore e ore; stando seduti in riva al laghetto; oppure camminando e ammirando la natura tutto attorno. Galael sapeva rapire Alina, di qualunque argomento parlassero. E Alina non capiva come lui potesse sapere tutte quelle cose che le diceva. E tante altre cose non capiva e non sapeva di Galael. Non sapeva se era giovane o vecchio. Ché a volte sembrava un bambino come lei; altre volte sembrava antico quanto il mondo. Provava una specie di sgomento di fronte al mistero di quell'essere straordinario; e nello stesso tempo era lusingata, perché Galael, per sua compagnia, aveva scelto proprio lei. Per cui, nonostante la curiosità, non si sentiva di interrogarlo in merito alla sua vita. Era troppo bambina. Ed era troppo bambina anche per porsi determinate domande; che sembravano invece toccare la vita di Galael. Prendeva tutto quello che lui diceva; e accettava il suo mistero, come cosa naturale e scontata.

D'altra parte Galael non parlava quasi mai di sé; e poco parlava degli uomini. Parlava solo del mondo, delle piante e degli animali. E sotto la magia delle sue parole, Alina si accorgeva di vedere tutto diverso; ogni cosa le appariva in una luce meravigliosa. Le cose erano più belle, più interessanti e più ricche. E poi la gioia di entrare ogni volta in dimensioni per lei sconosciute; quando, con parole facili e comprensibili, il suo amico parlava della creazione del mondo; delle grandi forze della natura nel miracolo di un meraviglioso equilibrio, oppure in lotta e in contrasto fra di loro; dell'origine dei mondi; della formazione delle montagne, delle pianure, dei mari; dei vari continenti; della nascita della flora e della fauna. Galael era fratello del mondo; ed era fratello specialmente delle piante e degli animali: ne conosceva singolarmente la storia; ne descriveva la natura i cambiamenti. Gli era famigliare la vita, come se anche lui avesse vissuto con loro, delle piante e degli animali oramai estinti da ere geologiche; e parlava anche di quelle piante e di quegli animali che, dalla loro nascita, erano così cambiati, da non riconoscerli più in confronto dei loro aspetti originali. Stando con lui, la fanciulla si apriva alla bellezza all'armonia e ai misteri del creato; e si entusiasmava della vita e dei suoi doni. Ogni volta lo ascoltava rapita; e non se ne sarebbe mai staccata. Ma Galael era un essere saggio. E ogni volta sapeva quando era il momento di congedarsi da lei. Anzi, a mano a mano che gli impegni scolastici della fanciulla crescevano, Galael si adattava a vederla sempre per meno tempo. Voleva che lei vivesse in pieno la sua vita. A scuola Alina era brava. E forse lo era soprattutto per merito di Galael. Nelle composizioni scriveva cose piene di concretezza e di poesia; e la sua mente, oltre che naturalmente fantastica, era anche serena e lucida; dominava ogni dimensione della realtà. Non si rifiutava ai più complessi problemi di matematica; e per le scienze poi aveva una vera passione; anche se avrebbe preferito che fossero trattate in modo meno arido. E ogni tanto le uscivano affermazioni che facevano stupire gli insegnanti e che non avevano riscontro nel sapere umano. Ma poi la cosa finiva lì. Ma, quando a scuola incominciarono a studiare a fondo la storia dell'uomo e delle sue grandi città, Alina avrebbe voluto parlarne con Galael; perché, così pensava, raccontata da lui, anche la storia degli uomini sarebbe diventata più bella e più interessante; come era stato per la storia della natura. Ma Galael conosceva poco l'uomo e odiava le città. E ad Alina ciò non sembrava giusto. E si sentì inquieta e addirittura infelice. Capì che questo poteva essere un punto di rottura per i loro rapporti. Perché, infatti, Galael non voleva fare esperienza del mondo degli uomini? Il suo mondo? Allora non le voleva bene? E poi lei aveva bisogno che lui le parlasse degli uomini e delle loro città e che gliele facesse conoscere e amare; come, assieme a lui, aveva imparato a conoscere e ad amare la natura. Lei, infatti, non aveva mai visto vere e proprie città. E sarebbe stato meraviglioso conoscerne qualcuna attraverso le magiche parole del suo misterioso amico! Perché, dunque, egli non volava in una delle più grandi e delle più vicine e non tornava poi a narrargliene? Ma Galael non voleva farlo. Sapeva ancestralmente che l'uomo era immaturo e pericoloso; e che in città non si sarebbe potuto nascondere come nel bosco. Però Alina incominciò a disperarsi e quasi ad ammalarsi per la delusione. E allora Galael partì. Ma la fanciulla ne attese invano il ritorno.

E passò il tempo.

Poi finalmente la ragazza: oramai non era più una bambina: ebbe l'occasione di partecipare ad una gita scolastica, proprio nella città in cui si era recato Galael. Al loro arrivo, i professori vennero informati che nel locale Istituto di Scienze Naturali era tenuto prigioniero un vero fenomeno: si trattava di una specie di mostricciatolo trasparente e con le ali; oggetto di ostinate quanto inutili indagini da parte dei più illustri scienziati; e che veniva trattenuto per ulteriori studi e ricerche. Vi condussero la scolaresca in visita. E così Alina poté rivedere il suo povero Galael. Ma quant'era malridotto, con le sue belle ali di libellula miseramente sciupate! Non era che una larva del Galael dei bei tempi, in riva al loro laghetto. Rinchiuso in quella piccola gabbia di vetro, faceva anche fatica a respirare. Alina nel vederlo diventò pallida; quasi svenne; e dovette appoggiarsi, per non cadere. Galael, invece, fu lieto di rivederla, finalmente. E incominciò a parlarle. Ma non pronunciò parole. Le parlò nella mente. E forse le aveva sempre parlato nella mente. Le disse che gli dispiaceva di non averla accontentata: avrebbe voluto, ma non gli era stato possibile tornare, per raccontarle le sue avventure. Comunque non avrebbe potuto dirle nulla per farle sembrare bella la città e il mondo degli uomini. Poteva solo raccomandarle di non odiarli. Gli uomini non capivano; non sapevano; dovevano ancora progredire; erano ancora troppo rozzi e ignoranti; per cui credevano di essere nel loro diritto a trattarlo in quel modo. Del resto, credevano di essere i padroni della natura. Ma, dal momento che non erano poche le Aline in questo mondo, per l'umanità c'era ancora speranza. Quanto a lei, non doveva dimenticare, come non dimenticava lui, i bei giorni felici nel bosco, in riva al loro lago. E lui ora poteva morire contento, perché l'aveva rivista; e perché sentiva che, con quella loro amicizia, anche la sua vita si era pienamente realizzata. Finora si era trascinato nella speranza, presentimento forse, di poterla rivedere. Ma oramai non avrebbe più bevuto quell'acqua impura che gli davano da bere; e avrebbe fatto in modo di affrettare la sua fine. Poi, dopo queste parole, le mandò un bacio con la sua piccolissima mano. Quindi si sdraiò e chiuse i suoi bellissimi occhi. Alina guardò le tremule ali verdazzurre e la evanescente delicata figura; finché le lacrime, che si stavano formando, glielo permisero. Poi dovette allontanarsi; anche perché gli altri oramai avevano terminato il giro delle varie stanze.

E pianse a lungo durante il ritorno; e poi pianse nella sua cameretta; e chiese cento volte perdono al suo Galael della sua triste curiosità.

In un primo tempo odiò gli uomini. Ma, a poco a poco, fece come il suo fantastico amico le aveva raccomandato. Ricordò, come poteva, i giorni felici; e spesso andò al bosco ad ammirare, a ripensare e a vivere di struggente nostalgia. Conservò sempre nel cuore la poesia di Galael: di ciò che aveva rappresentato e rappresentava per lei; e di ciò che le aveva insegnato nella dolcezza delle sue affascinanti parole. E, quando fu adulta, non odiò gli uomini; anzi, fedele ai suggerimenti del suo antico maestro, cercò di comprenderli, di amarli e di educarli alla conoscenza e al rispetto della natura e di se stessi. E lo fece con mille bellissime liriche, e con mille bellissimi racconti. Che girarono per il mondo; e dagli uomini furono letti e ammirati. E contribuirono grandemente ad affinare la loro sensibilità e a guidare la loro coscienza morale.

Autore. Maria Giovanna Perroni Lorenzini.

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