Era un'avventura eccitante. E nel mio cuore ero felice al
pensiero di quel bottino di tante castagne, grosse, lucenti
e dal gusto fragrante. Pregustavo la gioia delle molte
serate che avrei passato in solitudine accanto al fuoco, a
far cuocere quei dolci frutti. Io e il fuoco, e i miei
pensieri e i miei sogni, odorosi della legna dei nostri
oliveti e dei nostri boschi. Io in contemplazione e in
attesa; e, attorno, morbidi profumi di castagne e di allori;
e fuori, intanto, il paese, immerso in serate umide e
nebbiose; oppure, frastornato nel cielo da scrosci di
pioggia; o urlato dal vento freddo di tramontana; o
dall'umido vento di scirocco, sprigionato da lontano, dal
mare in tempesta.
Era quasi un rito, ogni sera.
Verso le sei la mamma lasciava un momento il negozio e
saliva in cucina, dove oramai avevo finito di fare i
compiti. Ravvivava le braci; o accendeva la legna; sceglieva
le castagne; sceglieva le cime di alloro; e poi versava
tutto nel paiolo, già pronto appeso alla sua catena con la
necessaria quantità di acqua opportunamente salata; quindi:
"Li hai fatti i compiti? Ci badi tu alla cottura?! Io devo
tornare in negozio": tornava giù, in bottega.
E io rimanevo solo, col calore del fuoco; con i colori
della fiamma; con l'incanto e con la musica del caminetto;
mentre il profumo della castagne conduceva la mia fantasia a
spazi aperti di pianure, di colline, e di montagne.
Dalle strade del paese, già buie e deserte, un silenzio
primordiale; spesso rotto dal brontolio e dal fischio del
vento: le ventate si ingolfavano e rumoreggiavano sordamente
dentro la cappa, mentre la fiamma aveva degli improvvisi
ondeggiamenti, e la legna emetteva vapori e stridii, come in
uno spasimo di martirio.
E io accudivo alla cottura; e un po' guardavo la fiamma;
un po' sonnecchiavo; un po' pregavo, perché "Senti questo
lamento della legna?", mi diceva spesso la nonna, "E' la
voce delle anime del Purgatorio, che invocano preghiere!";
un po' mi perdevo...
Poi, verso l'ora, stavo con le orecchie tese, per sentire
se da giù, dalla buia solitudine della via, percepivo il
caratteristico raschio di gola di mio padre, che arrivava
dal giro quotidiano.
Mio fratello, già apprendista in un'autofficina, arrivava
di solito con lui.
E solo quando udivo quel raschio, il mio cuore
ricominciava a battere normalmente, come per un indistinto
timore cessato.
Poi le castagne erano cotte; il babbo e mio fratello erano
tornati; la mamma aveva chiuso il negozio ed era risalita;
la famiglia, eravamo tutti riuniti.
E mentre la mamma preparava la cena e metteva tavola; e
mentre le castagne, oramai pronte, rimanevano accanto al
fuoco al caldo nella loro acqua di bollitura, io e mio
fratello ci si scaldava, si faceva il conto delle ballotte
che sarebbero toccate ad ognuno, si litigava; e il babbo era
assorto nella lettura del 'Grand Hotel', e ogni tanto ci
sgridava: "Ma non la finite mai, voi due, di litigare!?".
E io, nei momenti di calma, guardavo il fuoco; guardavo il
babbo che leggeva il 'Grand Hotel'; guardavo la mamma che
sfaccendava in cucina; dicevo a mio fratello: "Sei scemo!";
"Ridillo!, e ti riempio di botte!"; pensavo all'allegria
della cena; e un misto di sicurezza, di gratitudine, di
tenerezza riempiva il mio cuore:
ero felice che tutti eravamo lì riuniti; che la legna
ardeva nel caminetto; che nella casa c'era un morbido
profumo di castagne cotte e di alloro; che il babbo era
seduto a leggere il suo 'Grand Hotel'; che la mamma stava
preparando la cena; che io e mio fratello eravamo seduti
vicini a scaldarci, a dire scemenze e a litigare; che quel
focolare, quella casa e quelle persone mi amavano e mi
proteggevano; e che io li amavo...
Le castagne erano il simbolo di quelle riunioni, di quella
intimità, di quella serenità e sicurezza.
(dal racconto ‘Le castagne’, 1985, edito ne ‘Il ritorno di Ulisse’).
***
Oh, quelle lunghe serate invernali passate noi due, Regina ed io,
seduti presso al suo focolare! Nelle vie fiocamente illuminate e deserte
il sibilo ostinato e lamentoso dell'umido scirocco o del raggelante
tramontano; appeso alla catena il paiolo degli 'erbi' di campo: bolliva
in un sonnolento brontolio; mentre la 'serva', che poi era l'affezionata
e famigliare anziana nutrice, riuniva le braci, per far cuocere le
focaccine di pasta azima, granoturco misto a grano, acqua e sale,
obbligato ingrediente a quella pietanza agreste, condita con il
profumato olio dei nostri oliveti; e, di fronte a quell'ardente mistero,
i nostri lunghi silenzi, miei e suoi, assorti nella distratta
contemplazione dei mobili giochi delle fiamme; i miei pensieri ai suoi
pensieri; e i miei sguardi a tutta la sua persona, che nella discinta
libertà della nostra confidenza, offriva tutta se stessa ai miei occhi e
a quel domestico colorato riverbero.
E ancora ho nella memoria la forza sensuale della fiamma davanti agli
antichi caminetti nelle silenziose intimità di fuligginose cucine.
Le donne vi si spogliavano come davanti alla forza ipnotica di un
irresistibile amante. La donna davanti al fuoco, davanti all'elemento
compagno della primordialità dell'uomo, smetteva i vincoli della
riservatezza e del pudore e ridiventava la creatura della terra, la
forza ancestrale dell'istinto, della seduzione, e della perpetuazione
della specie; e si abbandonava alla violenta esibizione delle sue
sessualità, simboli della generazione e della continuità della vita.
Ed io ricordo sempre come viva memoria della mia infanzia, la generosa
ed ebbra nudità di mia madre: quel suo bel seno grande e candido e
quelle sue cosce tenere e verginali, sino quasi allo scollo delle
mutandine di panno fiorito: durante le oziose serate invernali, davanti
al fuoco del caminetto.
E a Regina succedeva la stessa cosa. Seduta davanti al fuoco, prima le
si accendeva tutto il viso, come in preda a un dolce assaporamento di
piacere; poi la magia del calore si impadroniva di tutto il suo corpo; e
allora, come rapita in uno stupido incantesimo, si scopriva nel petto,
sino alle coppe del reggiseno, e davanti, fin molto sopra le ginocchia;
e così, la testa reclinata da una parte, gli occhi prigionieri del
sortilegio della fiamma, le mani mollemente rilassate in grembo, offriva
a quella violenta e viva eccitazione del calore, come a dolci carezze di
amorose insidie, l'accensione del viso, lo splendore degli occhi, la
libertà dei piccoli seni, l'ampia apertura e la oscura intimità delle
giovani cosce.
Pensavo a queste cose, a questo interno invernale, mentre seduto in
corriera, la testa appoggiata al vetro del finestrino, nel cuore la
consapevolezza che una esaltante vicenda d'amore era terminata o stava
per terminare, tornavo verso casa.
(dal racconto inedito ‘Regina’, 1990)
***
... infine, il rientro a casa, dove mia madre aveva già acceso, ad accoglierci, un grande e vivace fuoco di profumata legna di bosco.
E poi, io a leggere accanto al fuoco; e anche Carla a leggere o a studiare accanto al fuoco, oppure seduta al tavolo a correggere i compiti; e mia madre anche lei accanto al fuoco a fare la maglia o a cucire oppure anche lei a leggere i suoi libri dal sapore ottocentesco; e che ogni tanto da dietro gli occhiali guardava me e guardava Carla e nei suoi sogni e nelle sue speranze non diceva niente; e, alternato alle rare parole mie o di Carla che chiedeva cose: un dubbio nella correzione dei compiti, un dubbio nell'interpretazione di un passo, una riflessione che amava esprimere a voce alta: il silenzio: solo lo stormire della grande acacia spoglia, lì fuori quasi sulla soglia della porta, quando c'era vento; solo il bruire dell'acqua nella via e contro i vetri delle finestre, quando pioveva; solo, nel buio della sera, a intervalli regolari, il rintocco delle ore dal campanile subito sopra di noi; solo, giù nella via, il rumore dei passi o delle voci di qualche passante che si affrettava verso casa; e, inoltre, il crepitio del fuoco e il brontolio delle castagne o degli 'erbi' nel paiolo, e il profumo di campi o di selva che si spandeva, caldo e intimo, in tutta la cucina...
E infine, erano le diciannove; e Carla aveva finito il suo lavoro o lo smetteva; si alzava e preparava la cena, programmata il giorno avanti, come del resto il pranzo...
(dal racconto inedito ‘Un autunno per Antonia’, 1996).
***
Salutammo: "Grazie del caffè e della conversazione. E buona serata". "Grazie a voi. Ma piove ancora. Aspettate che cessi del tutto". "Non importa. E' un'acqua che non fa paura. E poi abbiamo gli ombrelli". E uscimmo.
Prendemmo subito a destra, per la via del cimitero. Era quasi notte. Il brusio delle pioggia tra le masse degli ulivi oramai neri, e rare voci dagli interni del paese. Dissi:
- Camminando così vicini, i due ombrelli danno fastidio. Ne basta uno.
E senza che lei se lo aspettasse e potesse reagire, chiusi il mio ed entrai sotto il suo piccolo e graziosamente fiorito; e, approfittando del buio e della solitudine e con la scusa di entrare più agevolmente entrambi sotto la protezione del suo paracqua, le misi un braccio attorno alla vita e la strinsi a me. Carla neanche qui ebbe reazioni. Non disse nulla. Camminava stretta a me calma e silenziosa. Ed io, anch'io camminavo, stretto a lei, silenzioso; sotto quella pioggia che, secondo le previsioni degli amici nell'osteria, durante la notte si sarebbe mutata in neve.
Camminavo stretto a lei, nonostante il cuore e il corpo ancora inquinati dagli osceni riti d'amore con Antonia e dalle liti e dai deliri; stretto a lei, nonostante la consapevolezza che anche questa con Carla era violenza, e certo non meno turpe di quella che avevo tentato con Atonia… Ma, andando, sentivo dentro il cappotto il suo corpo caldo, che sapeva di buono; e questo mi faceva sentir bene…
In casa, al caldo della cucina economica e del caminetto, la serata fu silenziosa e laboriosa. Le ore erano scandite dai rintocchi dell'orologio del campanile subito sopra la nostra casa… Una casa, la nostra, fatta per la solitudine, il lavoro, la lettura e la meditazione.
Carla, come al solito, lavorava per la scuola. Mia madre un po’ lavorava a maglia, un po’ leggeva il suo Fogazzaro.
Anch’io leggevo. Leggevo la Divina Commedia. Veramente la rileggevo.
Era dai tempi universitari che non affrontavo più la Divina Commedia in una lettura programmata e puntuale; quando l'avevo letta con la preoccupazione dell'esame e con lo spirito ancora incerto fra lo storicismo dotto e puntiglioso dello Scartazzini e del Vandelli, lo storicismo crociano del Sapegno e del Russo, e il crocianesimo eloquente e sentimentale, romantico decadente, del Momigliano. Dopo di allora, rivisitazioni saltuarie e distratte di interi episodi, singoli canti, brani, qua e là, nelle diverse cantiche. Solo ora mi ero deciso a rileggerla da capo a fondo. Avevo già riletto l''Inferno' e il 'Purgatorio'. Avevo appena iniziato il 'Paradiso'. E ora che ero uomo e che Antonia aveva drammaticamente maturato la mia personalità e aveva impietosamente scoperto tutta la mia fragilità psicologica e aveva scosso quelle sicurezze esistenziali che, giorno dopo giorno, avevo imparato dal sorriso umano e illuminato e dagli insegnamenti catechistici del parroco don Tito, nella chiesa di Carla, ora, che ero uomo, del Poeta fiorentino mi avevano impressionato, più di ogni altra cosa, più della sua cultura e più anche della sua poesia, mi avevano impressionato la grande statura morale e l'incrollabile sicurezza esistenziale. Ora sapevo che quei rudimenti della dottrina cristiana di cui noi ragazzi ancora non conoscevamo l'impatto morale nella vita di ogni uomo e che don Tito, nella loro struttura semplice e chiara di domande e risposte: "Chi ci ha creati?", "Ci ha creati Dio"; "Chi è Dio?", "Dio è l'essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra"; "E perché Dio ci ha creati?", "Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e goderlo nell'altra in Paradiso": che don Tito ci aveva fatto imparare a memoria minacciandoci busse a non finire e accompagnando con la bacchetta librata in alto come un direttore d'orchestra le nostre corali e cantilenate risposte: ora sapevo che questi rudimenti erano diventati i tre inamovibili punti su cui aveva poggiato in sicurezza tutto il piano della sua matura esistenza e della sua attività letteraria che nacque dalla conversione. E che erano anche i tre inamovibili punti, su cui aveva poggiato l'eroismo caratteristico di tutta la grande civiltà medioevale. Una civiltà piena di orgoglio e di dignità; che, nella sua sicurezza morale, aveva saputo prospettare per sé, nel caso di errori, quei castighi terribili e inesorabili, quali sono descritti nei vari gironi dell''Inferno', per coloro che si fossero allontanati dalle direttive divine. Mentre la nostra, riflettevo, al paragone, è una civiltà di pavidi e di bambini. Perché è fondata sul culto della vita nella sua fisicità e nella sua durata: oggi conta che si viva, non come si vive; perché la civiltà di oggi ha terrore della morte; è una civiltà in cui i giovani muoiono non più per un ideale, ma per motivi turpi, o disonesti, o, al limite, stupidi; una civiltà che ha in orrore il concetto della divinità ieratico e severo: il nostro Dio non è più il Dio della tradizione, giusto, severo e punitore; ma è il Cristo; che abbiamo voluto solo misericordioso e sempre pronto a perdonarci, a giustificarci, e, addirittura, ad essere complice dei nostri vizi, delle nostre deviazioni. Una civiltà malata di giustificazionismo; che riduce le punizioni dei delitti fino al limite della decenza…
Leggere Dante per me è stato come ritrovare l'uomo, il senso della vita e della sua dignità... Io, che di dignità ormai...
Provai a parlarne con Carla. Ma lei non era d'accordo con la mia severità. Che chiamava giustizialismo. La comprensione e il perdono sono il sale e il lievito della terra. E, in fondo, la nostra Chiesa è figlia del Cristo del Nuovo Testamento e non del severo Dio dell'antica Bibbia. Anche nei semplici rapporti umani, comprendere e perdonare... Inoltre, la troppa voglia di giustizia nasconde spesso un senso di colpa e sentimenti di cattiva coscienza. Carla era sempre Carla: buona e comprensiva. E, in fondo, aveva ragione: io, il libertino, che sentiva il fascino di una vita severa e morigerata e di una morale che punisce inesorabilmente le colpe; e che questa filosofia avrebbe voluto imporre anche agli altri...
(dal racconto inedito ‘Un autunno per Antonia’, 1996)
***
Ero passato da lui qualche sera prima. Lo trovai in sala, accanto al fuoco. Solo. Nella sua abituale poltrona. Il fiasco del vino nero vuoto a mezzo e il bicchiere pieno a metà erano sul ripiano del focolare, vicini alla fiamma. Accucciolata sul divano, nella sospirosa attitudine di semiaddormentata la sua cagnetta. Mi disse: "Ero a guardare la fiamma del fuoco". Poi aggiunse: "Prima di metterti qui in poltrona accanto a me, prenditi un bicchiere, che sono lì nella vetrina". Io presi il bicchiere. Lui me lo riempì. Disse: "Il vino nero va bevuto che dà sul tiepido". Io ne bevvi un sorso. Poi mi sedetti, posando il bicchiere in terra alla mia destra. Mi disse: "Ora che è inverno, alla sera dopo il giro dai vari ammalati, questo è il mio passatempo, la mia consolazione. Guardo la fiamma del fuoco e ogni tanto bevo un sorso. La fiamma è come il vino e tutti e due sono come le donne. Se non fai attenzione, ti affatturano, ti fanno il sortilegio e tu non te ne puoi più liberare”. Poi, dopo una pausa, aggiunse. “La fiamma poi è anche peggio del vino, perché ti fa vagare con la fantasia. Guidata dalla fiamma, la fantasia va a rievocare il passato; ti spinge incontro all'avvenire. Due operazioni, a questa mia età, egualmente disastrose”.
Si abbandonava ai ricordi, pur dicendo disgraziato colui che si fa mettere sotto dalla nostalgia. Figlio di contadini, rimpiangeva quel mondo difficile, in cui le ore di lavoro correvano senza interruzione dall'alba al tramonto e in cui lo studio era riservato nel tempo rubato al sonno.
Poi mi disse: “Questi tardi e nebbiosi pomeriggi invernali, sanno già l’atmosfera natalizia; e la fiamma mi riporta alla poesia di antichi focolari, non più ritrovati e mai dimenticati". Parlava nella semioscurità della sala, solo rischiarata dal riverbero del fuoco. Il vino nel fiasco e nel bicchiere scintillava il suo rosso rubino. "Bevo per dimenticare", disse, "quel mio passato che non torna, questo presente che non m’importa, e un futuro che... C'era un poeta greco, ricordo, ma non ricordo il nome, che diceva che è meglio per l'uomo morire a sessant'anni. Anche prima, dico io...". E dicendo, prese in mano il bicchiere e, prima di bere, mettendolo contro la luce della fiamma, ne guardò la luminosa trasparenza. Poi lo vuotò. Quindi lo riempì di nuovo e lo posò rosso rubino accanto al fiasco. “E’ bello il vino, disse, Anche la sua bellezza contribuisce a inebriarti. E anche la fiamma, quando è una bella fiamma. E anche una bella donna, una ragazza, una vergine, quando è bella”. In queste sue confidenze, eccetto gli accenni di quella sera, in cui le paragonò al vino e alla fiamma, mai parlò di donne e di amore.
(dal racconto inedito ‘Antichi focolari’, 2007).
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