L’altro giorno avevo promesso che avremmo parlato dell’autunno. Ed eccoci qui a farlo. Con cinque poesie di mia moglie e con due brani miei. Uno dal racconto ‘Le castagne’, pubblicato ne ‘Il ritorno di Ulisse’ e l’altro dall’inedito ‘Un autunno per Antonia’. Ma a parlarvi io, di quale autunno?
Di quello in Autunno, appunto, in cui l’autunno è metafora del nostro tramonto della vita e insieme solenne preghiera in cui abbiamo una religiosa accettazione della morte?
Oppure la visione che abbiamo in Nebbia di Novembre, di un autunno angosciante, un paesaggio da colori metallizzati, una poesia che lascia stupiti?
O quello de Il mio autunno, in cui c’è il confronto fra l’autunno della natura generoso ed amico; e quello nostro, che invece è sterile e ostile?
O l’autunno di Foglie di novembre. Le quali, oramai in balia del vento, e disposte in varie geometrie, si esibiscono grottescamente nella danza macabra dell’addio?
Oppure quello ne Il rinnovarsi del mistero: un autunno che prepara la terra ad una nuova generazione. Un’atmosfera di religioso stupore.
O infine l’autunno dei miei due brani, tutto sommato, sereno ed idillico. Un’atmosfera distesa e tranquilla. Il paesaggio autunnale ortonovese e nicolese, nella sua castità di un tempo.
Vedete come cambiano le cose, a seconda di chi le guarda. Ad ognuno il suo autunno. Perché ad ognuno il suo mondo e la sua poesia. Infatti anche la poesia, cioè anche l’anima, come il sangue, come i tessuti, ha il suo dna. Per cui, leggete e poi parlatevi voi del vostro autunno. Che, lo so, sarà bellissimo e sarà unico.
Comunque, ora, prima di iniziare a scrivere e a parlarvi del vostro autunno, godetevi queste cinque poesie di mia moglie e i due brani miei.
Autunno
Quasi indugiando ad abbassare il velo,
io m'attardo a guardare la mia sera:
"Fa che non resti, il tempo dell'Attesa,
nuda, qual vite dopo la vendemmia;
ma che sol doni ancora qualche frutto...
E poi, lasci salire la Marea;
anzi, l'accolga nel Tuo Santo Nome".
Nebbia di Novembre
Da giorni c'è
la nebbia di Novembre,
bianco-grigiastra,
immobile, insistente.
E il sole, disco opaco
tra i vapori, vi piange invano,
in mezzo, le sue lacrime,
d'un oro antico
misto a stinto bronzo.
E, col buio,
brumosa appar la luna,
perla pietrosa,
erosa dalla ruggine;
e se dal cielo
strappa qualche luce
la squaglia
in molli gocce bruno-argento.
Il mio autunno
Autunno
s'ingravida di frutti
e s'incurva nei rami carichi,
in paziente attesa
di essere spogliato;
ristora
d'un più fresco tepore
le ormai pendule foglie,
che non soffrano,
non s'accorgano
se l'umore vitale
intanto si ritrae.
Il mio autunno
è più avaro
e meno lene.
Foglie di novembre
Il vento ora le appende, in un cordone
color ruggine, in cima a una grondaia:
pare corona lacera o festone
di una festa d'estate, ormai lontana;
poi, di colpo, le spande nuovamente.
Ed, a quel mugghio d'organo scordato,
ora fanno geometriche figure:
cerchi, ruote e triangoli infiniti;
o mulinano in vortici primevi
in una mesta parodia di vita,
macabro ballo di persone morte...
Indi, violento, un turbine le avvolge,
le rapisce come anime perdute,
e caccia pure l'ultima parvenza
di questa folle - danza dell'addio -.
Il rinnovarsi del mistero
Già pregna,
questa terra
di novembre,
o amante
ancora in cerca
dell'abbraccio,
s'adagia
in bei tappeti
di velluto;
ad un colpo di vanga
si rinnova,
da secca e dura
in morbida e umorosa;
gettàti gli anni
i secoli
e le ere,
apre il suo seno
pronta a rifigliare.
In ginocchio
alla sponda
di quel letto,
vi imprimo con la mano
il segno lieve
di una furtiva effimera
carezza;
inabile
a sanare
il disamore;
pur grata
al rinnovarsi
del mistero.
Ed ora i miei due brani. Leggendo i quali capirete anche il perché abbiamo caratterizzato il titolo di questo blog con la parola carmina, pur essendo un luogo in cui sono mescolate poesia e prosa. Perché anche la mia prosa, come le sue poesie, spesso è una prosa lirica, è prosa d’arte. E' carmen.
Infatti noi in quest’epoca di una nostra lingua inglesizzata e deturpata da pressapochismi, da frettolose sigle matematiche; di una lingua che è la proiezione della schzofrenica fretta moderna; ed è il risultato dello scempio che le Istituzioni, per i più vari motivi, economici sociali e politici, hanno permesso del Latino; noi proponiamo una lingua che sia la proiezione della serenità di un animo che non ha fretta, che è in pace con se stesso, e che vive secondo i ritmi della saggia e armoniosa legge di natura; una prosa che sia nobile ed elevata, concreta e fascinosa, che sia ampia e luminosa come certe nostre albe e certi nostri tramonti. E quando scriviamo noi non vogliamo guardare l’orologio, ma vogliamo guardare il nostro spirito nei suoi stupori di fronte ai vari spettacoli che ci offre la ricchezza della vita. Vogliamo creare la pagina con diligente attenzione, vogliamo meditare sulla poeticità della parola; vogliamo girarci attorno al nostro manufatto e osservarlo in tutti i particolari, per vedere se tutto torna e se tutto è in armonia. Noi vogliamo avere il gusto, la competenza, la pazienza e il genio degli antichi nostri artigiani. Quelli che fecero splendida la nostra Italia. Perché noi vogliamo essere gli artigiani della nostra pagina. Ma ecco le pagine.
Idillio
Sempre l'autunno con i suoi frutti variopinti ad adornare
alberi oramai stanchi; coi suoi freschi tepori; con i suoi
limpidi mattini; con le sue dolcissime e silenziose e tenere
sere: era scesa la sera; e nella strada, oltre il fiume, il
tardivo carro dai campi; e poi, nel silenzio, il canto di
uccelli notturni e dei rari e ultimi grilli; negli interni,
i camini già accesi, il brontolio impaziente del vento, il
profumo di mosto, e gli aromi di alloro e di castagne
bollite: con i suoi operosi riti agricoli; con le sue
intenerite malinconie, giungeva per me come la mistica
rivelazione di un miracolo: era la dea Natura che appariva
agli uomini, dispensatrice dei suoi infiniti doni di
bellezza, di bontà e di utilità.
Rientravo i primi giorni a scuola, ancora stupito, negli
occhi e nel cuore, come per inebrianti e magiche visioni.
L'animata attività degli assolati vigneti, in cui le
ricche vendemmie si trasformavano nel vocìo di allegre feste
campestri;
le concitate e gioiose svinature, con la scintillante
seduzione degli spumeggianti mosti, in cui le torbide
schiumosità presto si schiarivano in limpide e profonde
trasparenze;
la libertà degli immensi castagneti, dalle risonanze
misteriose: nella nostalgia, la dolce visione di lunghe
serate nelle calde intimità profumate di bosco;
e, ancora, l'opulenza dei floridi oliveti, animati da
chiassose e laboriose presenze, nell'attesa delle fragranti
promesse della bruna oliva; quando poi, nelle allucinate
oscurità di cavernosi frantoi abbagliati da vulcanici
fuochi, l'antico frutto, nel tormento di purificanti martiri
al giro di ciclopiche macine, si trasformava nella dorata
lucentezza del limpido liquore;
e, infine, le domestiche cene famigliari, profumate delle
morbide e fragranti castagne.
(dal racconto edito Le castagne)
Esterno ed interno autunnali
E poi c'era l'arrivo di Carla da scuola; il pranzo
insieme; la breve passeggiata del primo pomeriggio lungo la
via nuova: i boschi oramai spogli; i castagni oramai spogli;
le olive oramai mature; negli oliveti allegre conversazioni
nella gioia della raccolta e lo sciabordio fra le fronde
delle canne maneggiate dagli esperti bacchiatori; sotto gli
alberi, lungo la via, ricci saccheggiati e castagne
abbandonate; vento di scirocco; aria nebbiosa e umida; cielo
nuvoloso e mare in burrasca; squarci di sole e scrosci di
pioggia; il rapido calare della sera; il ritorno; la breve
sosta alla Società, al bar della Elide, a fare due
chiacchiere e a prendere il caffè; il tragitto verso casa
per la via del cimitero; la bianca visione di Ortonovo; la
candida visione del Santuario; l'imponenza dei monti di
Santa Lucia e del Forte, avvolti in nubi di tempesta; la
valle di Casano ovattata di nebbia; e, lì vicino, il
cimitero deserto nel suo eterno silenzio e nella sua eterna
pace; infine, il rientro a casa, dove mia madre aveva già
acceso, ad accoglierci, un grande e vivace fuoco di
profumata legna di bosco.
E poi, io a leggere accanto al fuoco; e anche Carla a
leggere o a studiare accanto al fuoco, oppure seduta al
tavolo a correggere i compiti; e mia madre anche lei accanto
al fuoco a fare la maglia o a cucire e che ogni tanto da
dietro gli occhiali guardava me e guardava Carla e nei suoi
sogni e nelle sue speranze non diceva niente; e, alternato
alle rare parole mie o di Carla che chiedeva cose: un dubbio
nella correzione dei compiti, un dubbio nell'interpretazione
di un passo, una riflessione che amava esprimere a voce
alta: il silenzio: solo lo stormire della grande acacia lì
fuori quasi sulla soglia della porta, quando c'era vento;
solo il bruire dell'acqua nella via e contro i vetri delle
finestre, quando pioveva; solo, nel buio della sera, a
intervalli regolari, il rintocco delle ore dal campanile
subito sopra di noi; solo, giù nella via, il rumore dei
passi o delle voci di qualche passante che si affrettava
verso casa; e, inoltre, il crepitio del fuoco e il brontolio
delle castagne o degli 'erbi' nel paiolo, e il profumo di
campi o di selva che si spandeva, caldo e intimo, in tutta
la cucina...
E infine, erano le diciannove; e Carla aveva finito il suo
lavoro o lo smetteva; si alzava e preparava la cena...
(dal racconto Un autunno per Antonia. inedito).
******
giovedì 29 novembre 2007
lunedì 26 novembre 2007
TI BERRO' DOLCEMENTE...
RUGIADA A PRIMAVERA
Goccia d'alba nel calice d'un fiore,
perla ialina, iridescente specchio,
stilla odorosa di struggente nettare,
aureolata di solare polline,
ti berrò dolcemente, inebriata
del tuo fresco messaggio di speranza.
Quale miglior augurio a questa giornata di profondo autunno, che questa luce di primavera? La poesia si trova in 'Sulla cima del cipresso' , che, lo sapete, è un libro di poesie di mia moglie Nanna; ed è a pagina 43. Ma, nell'augurarvi buona giornata per questo lunedì 26 Novembre 2007, volevo anche dirvi che noi l'Autunno lo amiamo. E che sull'autunno nella nostra attività di scrittori esistono pagine veramente suggestive. Che vi faremo conoscere. Buona giornata.
Goccia d'alba nel calice d'un fiore,
perla ialina, iridescente specchio,
stilla odorosa di struggente nettare,
aureolata di solare polline,
ti berrò dolcemente, inebriata
del tuo fresco messaggio di speranza.
Quale miglior augurio a questa giornata di profondo autunno, che questa luce di primavera? La poesia si trova in 'Sulla cima del cipresso' , che, lo sapete, è un libro di poesie di mia moglie Nanna; ed è a pagina 43. Ma, nell'augurarvi buona giornata per questo lunedì 26 Novembre 2007, volevo anche dirvi che noi l'Autunno lo amiamo. E che sull'autunno nella nostra attività di scrittori esistono pagine veramente suggestive. Che vi faremo conoscere. Buona giornata.
domenica 25 novembre 2007
I NOSTRI LIBRI
I libri di Carlo Lorenzini.
Il ritorno di Ulisse. Racconti. Editori del Grifo. Montepulciano. 1994.
Com’eravamo. Memorie. Editrice DonChisciotte. San Quirico. 2007.
I libri di Maria Giovanna Perroni.
Il diamante. Poesie. Edizioni APE. Terni. 1991.
Il gioco del reale. Poesie. Nuove Seledizioni. Grizzana Morandi (BO). 1994.
Il riso segreto. Poesie. Edizioni APE. Terni. 1995.
Lacrime di gigli. Poesie. Edizione la CO.ME.TE. Ragusa. 1996.
La pace delle bambole. Racconti. Ibiskos Editrice. Empoli. 2002.
Sulla cima del cipresso. Poesie. Editrice DonChisciotte. San Quirico. 2003.
Il ritorno di Ulisse. Racconti. Editori del Grifo. Montepulciano. 1994.
Com’eravamo. Memorie. Editrice DonChisciotte. San Quirico. 2007.
I libri di Maria Giovanna Perroni.
Il diamante. Poesie. Edizioni APE. Terni. 1991.
Il gioco del reale. Poesie. Nuove Seledizioni. Grizzana Morandi (BO). 1994.
Il riso segreto. Poesie. Edizioni APE. Terni. 1995.
Lacrime di gigli. Poesie. Edizione la CO.ME.TE. Ragusa. 1996.
La pace delle bambole. Racconti. Ibiskos Editrice. Empoli. 2002.
Sulla cima del cipresso. Poesie. Editrice DonChisciotte. San Quirico. 2003.
NON PIU' CHE ALCUNE PIUME
NON PIU’ CHE ALCUNE PIUME...
C’era una volta un uomo, che era anche un padre, tenuto prigioniero da un crudele tiranno in un’isola straniera. Quest’uomo ogni giorno andava a sedersi su uno scoglio presso al mare e qui coltivava nel suo cuore la nostalgia della dolce patria lontana. Aveva il mare davanti a sé; e aveva la terra dietro di sé; e sopra di sé aveva il cielo infinito. E l’uomo pensava: “Il tiranno è padrone della terra e del mare. Ma, del cielo? Il cielo è libero. Il cielo non ha padroni. Questo pensiero gliene suggerì un altro. Perché non fuggire da questa prigione attraverso il cielo?
Dixit et ignotas animum dimittit in artes,/ naturamque novat.
Così disse. E siccome l’uomo era un bravo artefice, ebbe l’intuizione su quali sarebbero stati i mezzi per fuggire. Ed applicò tutta la sua mente alla realizzazione di questa idea. E modificò le leggi della natura. E con piume e cera costruì per sé e per il figlio, che era prigioniero con lui, due ali per ciascuno. In tutto simili alle ali degli uccelli. Poi lui se le adattò. Provò a volare. Volava. Allora le adattò anche al figlio. Dicendo che erano pronti per partire. “Ma sta’ attento!”, lo ammonì, “Sii saggio nel volo. Non ti far prendere dall’entusiasmo. E abbi me come guida. Non volare troppo in basso: l’acqua del mare potrebbe bagnare le tue ali. Né troppo in alto: il calore del sole potrebbe scioglierti la cera. Tienti nel giusto mezzo”. (l’eterno giusto mezzo dei padri!). Il giovane sentiva. Ma aveva la fantasia in cieli aperti e in libertà infinite. Il padre, mentre parlava, mentre si raccomandava, lo sapeva com’erano i giovani!, aveva il cuore in angosce.
Comunque, presero il volo. E subito furono in alto nella libertà degli aperti cieli. Da giù, dalla terra, li videro dei pescatori, e li videro dei pastori e degli aratori. E si meravigliarono. E pensarono che fossero delle divinità.
Ma il giovane, non fu saggio: lui
audaci coepit gaudère volatu,
fu preso, cioè, dall’ebbrezza del temerario volo: in alto, sempre più in alto... ubriaco di ardimento, assetato di libertà ... E il cielo era libero ed era suo... Finché, la cera e il calore del sole... Improvvisamente non sentì più le ali a sorreggerlo...
Oh, come correva l’auto per quella strada quasi deserta, in montagna! Volava, si potrebbe dire... Il giovane, era la prima volta con un’automobile tutta sua. E poi, così potente... Eppure il padre, consegnandogli le chiavi, lo aveva avvertito: “La macchina è potente, è veloce... Ci vuole saggezza”. Ma lui lo era saggio...
Subito ricevute le chiavi, l’aveva voluta provare. Ma per le vie della città e in periferia, era sacrificata. Allora pensò alla strada, ora con poco traffico, che saliva su alla cima della montagna. Che brividi, in quei lunghi tratti, che correvano come appesi al fianco del monte, quasi sospesi in aria; e, sotto, il vuoto, fin giù, nel mare. E poi ogni tanto una curva secca a tornante, che l’auto affrontava con azzardosa incoscienza. Inoltre, quei sorpassi realizzati sul filo del secondo, di fronte ai veicoli che giungevano in senso contrario. E il mezzo nella sua efficienza di auto moderna ubbidiva con agile prontezza ad ogni minimo accenno di comando.
Arrivò lassù, in cima al suo monte Ventoso, che non se ne era accorto. Ed ora, mentre l’auto se ne stava da una parte, docile e mansueta come il cavallo del guerriero in riposo fra due turni di battaglia, lui era seduto su uno scoglio di monte, in faccia, laggiù, alla vastità dell’orizzonte, fra cielo e mare. Venendo, aveva volato. E anche durante i diciannove anni della sua vita aveva volato. A scuola: di successo in successo. Compreso l’esame di maturità nel luglio scorso. Che addirittura, terminato il colloquio, prima di congedarlo, il presidente e i commissari gli avevano stretto la mano, complimentandosi. Ed era orgoglioso di questi successi. E anche con le ragazze: lui, come l’uomo di quella famosa pubblicità, non aveva bisogno di chiedere. Si sentiva un dio. Ma, oramai, il sole si avviava verso il tramonto, era l’ora di tornare.
L’auto, non appena girata la chiave, ruggì la sua disponibilità. Anche la discesa doveva essere una sfida. Era da brivido correre in una strada, accompagnata nel suo percorso da precipizi, che andavano a finire nel mare. L’auto scendeva liscia e veloce. E il giovane guidava e sognava. Quante cose con quest’auto a disposizione! Che vita diversa! La vita, ora, era nelle sue mani. Guidava. E la testa l’aveva fra le nuvole. Inseguiva sogni e progetti... Quando, d’un tratto, l’ennesima curva, in cui lui si gettò, al solito, con temeraria velocità. Ma l’auto, svoltando, improvvisamente si trovò davanti, accecante nel suo splendore, il disco sfolgorante del sole, vicino al tramonto. E lui, subito, non vide più nulla. Fu un attimo. Non sentì più la strada sotto l’automobile. Ora, anch’essa volava, come, un istante prima, i suoi pensieri, i suoi sogni. E il giovane ebbe appena il tempo di invocare il nome del padre. Che poi fu tutto silenzio.
E il padre da lassù, dalle altezze della sua inutile saggezza, vide ciò che era rimasto del figlio. Non più che alcune piume qua e là, in balia delle onde. 23.10.07.
NOTA. Le due citazioni sono di Ovidio, dalle ‘Metamorfosi’ (VIII, 188-189 e VIII; 224). Le quali ‘Metamorfosi’, nell’episodio di Dedalo e Icaro, assieme alle tragedie della vita moderna, hanno liberamente ispirato il breve racconto.
***
C’era una volta un uomo, che era anche un padre, tenuto prigioniero da un crudele tiranno in un’isola straniera. Quest’uomo ogni giorno andava a sedersi su uno scoglio presso al mare e qui coltivava nel suo cuore la nostalgia della dolce patria lontana. Aveva il mare davanti a sé; e aveva la terra dietro di sé; e sopra di sé aveva il cielo infinito. E l’uomo pensava: “Il tiranno è padrone della terra e del mare. Ma, del cielo? Il cielo è libero. Il cielo non ha padroni. Questo pensiero gliene suggerì un altro. Perché non fuggire da questa prigione attraverso il cielo?
Dixit et ignotas animum dimittit in artes,/ naturamque novat.
Così disse. E siccome l’uomo era un bravo artefice, ebbe l’intuizione su quali sarebbero stati i mezzi per fuggire. Ed applicò tutta la sua mente alla realizzazione di questa idea. E modificò le leggi della natura. E con piume e cera costruì per sé e per il figlio, che era prigioniero con lui, due ali per ciascuno. In tutto simili alle ali degli uccelli. Poi lui se le adattò. Provò a volare. Volava. Allora le adattò anche al figlio. Dicendo che erano pronti per partire. “Ma sta’ attento!”, lo ammonì, “Sii saggio nel volo. Non ti far prendere dall’entusiasmo. E abbi me come guida. Non volare troppo in basso: l’acqua del mare potrebbe bagnare le tue ali. Né troppo in alto: il calore del sole potrebbe scioglierti la cera. Tienti nel giusto mezzo”. (l’eterno giusto mezzo dei padri!). Il giovane sentiva. Ma aveva la fantasia in cieli aperti e in libertà infinite. Il padre, mentre parlava, mentre si raccomandava, lo sapeva com’erano i giovani!, aveva il cuore in angosce.
Comunque, presero il volo. E subito furono in alto nella libertà degli aperti cieli. Da giù, dalla terra, li videro dei pescatori, e li videro dei pastori e degli aratori. E si meravigliarono. E pensarono che fossero delle divinità.
Ma il giovane, non fu saggio: lui
audaci coepit gaudère volatu,
fu preso, cioè, dall’ebbrezza del temerario volo: in alto, sempre più in alto... ubriaco di ardimento, assetato di libertà ... E il cielo era libero ed era suo... Finché, la cera e il calore del sole... Improvvisamente non sentì più le ali a sorreggerlo...
Oh, come correva l’auto per quella strada quasi deserta, in montagna! Volava, si potrebbe dire... Il giovane, era la prima volta con un’automobile tutta sua. E poi, così potente... Eppure il padre, consegnandogli le chiavi, lo aveva avvertito: “La macchina è potente, è veloce... Ci vuole saggezza”. Ma lui lo era saggio...
Subito ricevute le chiavi, l’aveva voluta provare. Ma per le vie della città e in periferia, era sacrificata. Allora pensò alla strada, ora con poco traffico, che saliva su alla cima della montagna. Che brividi, in quei lunghi tratti, che correvano come appesi al fianco del monte, quasi sospesi in aria; e, sotto, il vuoto, fin giù, nel mare. E poi ogni tanto una curva secca a tornante, che l’auto affrontava con azzardosa incoscienza. Inoltre, quei sorpassi realizzati sul filo del secondo, di fronte ai veicoli che giungevano in senso contrario. E il mezzo nella sua efficienza di auto moderna ubbidiva con agile prontezza ad ogni minimo accenno di comando.
Arrivò lassù, in cima al suo monte Ventoso, che non se ne era accorto. Ed ora, mentre l’auto se ne stava da una parte, docile e mansueta come il cavallo del guerriero in riposo fra due turni di battaglia, lui era seduto su uno scoglio di monte, in faccia, laggiù, alla vastità dell’orizzonte, fra cielo e mare. Venendo, aveva volato. E anche durante i diciannove anni della sua vita aveva volato. A scuola: di successo in successo. Compreso l’esame di maturità nel luglio scorso. Che addirittura, terminato il colloquio, prima di congedarlo, il presidente e i commissari gli avevano stretto la mano, complimentandosi. Ed era orgoglioso di questi successi. E anche con le ragazze: lui, come l’uomo di quella famosa pubblicità, non aveva bisogno di chiedere. Si sentiva un dio. Ma, oramai, il sole si avviava verso il tramonto, era l’ora di tornare.
L’auto, non appena girata la chiave, ruggì la sua disponibilità. Anche la discesa doveva essere una sfida. Era da brivido correre in una strada, accompagnata nel suo percorso da precipizi, che andavano a finire nel mare. L’auto scendeva liscia e veloce. E il giovane guidava e sognava. Quante cose con quest’auto a disposizione! Che vita diversa! La vita, ora, era nelle sue mani. Guidava. E la testa l’aveva fra le nuvole. Inseguiva sogni e progetti... Quando, d’un tratto, l’ennesima curva, in cui lui si gettò, al solito, con temeraria velocità. Ma l’auto, svoltando, improvvisamente si trovò davanti, accecante nel suo splendore, il disco sfolgorante del sole, vicino al tramonto. E lui, subito, non vide più nulla. Fu un attimo. Non sentì più la strada sotto l’automobile. Ora, anch’essa volava, come, un istante prima, i suoi pensieri, i suoi sogni. E il giovane ebbe appena il tempo di invocare il nome del padre. Che poi fu tutto silenzio.
E il padre da lassù, dalle altezze della sua inutile saggezza, vide ciò che era rimasto del figlio. Non più che alcune piume qua e là, in balia delle onde. 23.10.07.
NOTA. Le due citazioni sono di Ovidio, dalle ‘Metamorfosi’ (VIII, 188-189 e VIII; 224). Le quali ‘Metamorfosi’, nell’episodio di Dedalo e Icaro, assieme alle tragedie della vita moderna, hanno liberamente ispirato il breve racconto.
***
UNA STORIA IN QUATTRO TEMPI
PRIMO TEMPO. Maria Giovanna scrive la poesia.
UN DOLCE ADDIO
Campi arati di fresco e verdi prati,
nell’estate dei Santi, e tigli d’oro.
E mai cessa la danza delle foglie,
che cadono, in corona, al lieve vento:
dolce è l’addio, in quell’ultimo bagliore
che ognuna manda fuori, un caldo fuoco,
acceso al bacio vivido del sole.
(Maria Giovanna).
SECONDO TEMPO. Carlo la invia a Ruccio, con un biglietto di presentazione.
Ecco, mio Ruccio, i colori dell’autunno che diventano contemplazione
lirica. E’ una splendida giornata, in cui la luce del giallo trionfa.
Qui è il colore della morte. Cui le foglie, cadendo, si avviano, con un
dondolio di danza. E’ la danza dell’addio. E, nell’addio, mandano un
ultimo bagliore. Che si accende al ‘bacio vivido del sole’.
TERZO TEMPO. Ruccio la legge e risponde, con parole alate.
Carissimi amici Carlo e Maria Giovanna, io vi mando delle semplici foto per mostrarvi i colori dell'autunno nella nostra bassa padana e voi mi ricambiate con composizioni e poesie bellissime, malinconiche, profonde, dense di contenuti..... Non c'è competizione, non può esserci gara! Mi inchino, con stupore, all'arte, pura, delicata,
commovente e vi abbraccio con grande ammirazione e affetto Ruccio
QUARTO TEMPO. Carlo ringrazia ed elogia la risposta di Ruccio.
Carissimo. Neanche tu scherzi, vedo. Un commento che è in tutto degno della breve lirica. Perché della lirica ha il fascino. Chi legge, resta in ammirazione delle espressioni, delle parole, delle pause, dei silenzi... Come di fronte ad una magia di bellezza. Maria Giovanna (che temeva che la sua poesia non fosse degna delle tue fotografie); ti ringrazia e ride di commozione. Carlo.
********
UN DOLCE ADDIO
Campi arati di fresco e verdi prati,
nell’estate dei Santi, e tigli d’oro.
E mai cessa la danza delle foglie,
che cadono, in corona, al lieve vento:
dolce è l’addio, in quell’ultimo bagliore
che ognuna manda fuori, un caldo fuoco,
acceso al bacio vivido del sole.
(Maria Giovanna).
SECONDO TEMPO. Carlo la invia a Ruccio, con un biglietto di presentazione.
Ecco, mio Ruccio, i colori dell’autunno che diventano contemplazione
lirica. E’ una splendida giornata, in cui la luce del giallo trionfa.
Qui è il colore della morte. Cui le foglie, cadendo, si avviano, con un
dondolio di danza. E’ la danza dell’addio. E, nell’addio, mandano un
ultimo bagliore. Che si accende al ‘bacio vivido del sole’.
TERZO TEMPO. Ruccio la legge e risponde, con parole alate.
Carissimi amici Carlo e Maria Giovanna, io vi mando delle semplici foto per mostrarvi i colori dell'autunno nella nostra bassa padana e voi mi ricambiate con composizioni e poesie bellissime, malinconiche, profonde, dense di contenuti..... Non c'è competizione, non può esserci gara! Mi inchino, con stupore, all'arte, pura, delicata,
commovente e vi abbraccio con grande ammirazione e affetto Ruccio
QUARTO TEMPO. Carlo ringrazia ed elogia la risposta di Ruccio.
Carissimo. Neanche tu scherzi, vedo. Un commento che è in tutto degno della breve lirica. Perché della lirica ha il fascino. Chi legge, resta in ammirazione delle espressioni, delle parole, delle pause, dei silenzi... Come di fronte ad una magia di bellezza. Maria Giovanna (che temeva che la sua poesia non fosse degna delle tue fotografie); ti ringrazia e ride di commozione. Carlo.
********
Iscriviti a:
Commenti (Atom)