mercoledì 25 marzo 2009

L'estate di dicembre

maria giovanna perroni lorenzini e carlo lorenzini

L’ESTATE DI DICEMBRE

un amore per una vita

una vita per un amore

A Rita ed Emilio questo piccolo libro, come l’eredità più grande e bella che dei genitori possano lasciare ai propri figli. La mamma e il babbo.

PRESENTAZIONE

una cosa meravigliosa

Questo libro: siamo in due gli autori, mia moglie ed io: perché lo presento solo io? Perché in realtà è un libro suo, di mia moglie. E’ lei che lo ha voluto. Mi ci ha costretto a farlo. Ora, siccome è tradizione che ogni libro suo lo presento io e ogni libro mio lo presenta lei, eccomi qua io, a presentare questo suo libro. E’ suo, come l’amore che c’è dentro. Perché è un libro d’amore, del suo amore e quindi, per riflesso, anche del mio amore. Perché, leggete il primo brano in prosa, che è mio e che si intitola ‘Un amore per una vita’, e vedrete che è stata lei a costringermi ad amarla. Toccherete con mano la costrizione. Ma poi anche dopo, anche quando magari io con altre donne..., lei sempre, una continua costrizione ad amarla. E anche quando, passati i fumi della gioventù, tutto era tranquillo e facile, lei, quasi non si fidasse della bonaccia, continuò a richiamarmi all’amore, ad amarla; ed erano ogni volta richiami intensi, appassionati, fatti con il cuore ardente, con nella voce, negli occhi e in tutto il suo viso la luce di un’amante fissata negli stupori del primo amore. Tanto che io, alla passionale intensità di quei versi (erano versi, infatti, erano poesie quelle che lei mi scriveva; perché lei è una poetessa; ed ora alcune di queste poesie le potrete leggere in questo libro), mi commuovevo, piangevo, piangevo a calde lacrime e amavo. Amavo, perché io non sono mai stato un uomo forte deciso originale; mi sono sempre uniformato alla volontà degli altri. E anche a quella di mia moglie, che mi comandava di amarla. Ed io ubbidii. E l’amai sempre. Anche perché amarla la trovai sempre una cosa meravigliosa.

una chiave di lettura

Ed ora, se volete,una chiave di lettura.

Intanto questo libro che vi presentiamo è veramente a due voci; i brani e le poesie che contiene sono stati scritti in varie occasioni, da me o da lei, per comunicarci reciprocamente i sentimenti del cuore. Ed ora ci siamo accorti che questi messaggi, visti in prospettiva, potevano fare la storia del nostro amore e un po’ anche della nostra vita. Per questo ci è venuta l’idea di metterli insieme (non tutti, ovviamente), e di farne un libriccino, che raccontasse questo nostro amore. E non per esibizionismo o per protagonismo; ma semplicemente perché ci pare di capire che di libri d’amore di questo genere, fra la gente, c’è estremo bisogno.

E’ una storia che si snoda per momenti lirici, toccando i fatti salienti della vicenda. Ma c’è tutto. C’è l’incontro casuale e l’inizio della stagione amorosa (‘Un amore per una vita’, ‘Perché’ e ‘Preziosi ricordi’); c’è il pieno della stagione d’amore (‘Noi e la neve’, ‘Tu dormi’); c’è, perché no?, la sua brava crisi (‘Per tutta la vita’, ‘Bianco inferno’, ‘Due pianti’ e ‘Un fantoccio di pane’); ci sono i momenti in cui l’amore brilla più del solito (‘Nell’oliveto’ e ‘Oggi non mi parlare’); ci sono quelle difficoltà, che toccano a tutti (‘Incubo’ e ‘Lettera a Carlo’); c’è l’amore sicuro e irreversibile della maturità (‘Il dolce tuo nome’ e ‘Tre semplici parole’); e c’è la fase ultima, in cui ancora ci troviamo mentre scriviamo (ad esempio: ‘Quattro passi in un mattone’ e ‘Spartire vecchiezza insieme’; e, inoltre, coronamento dell’opera e da cui il libro prende il titolo, la bellissima ‘Estate di dicembre’), una fase dolce come uno dei più dolci tramonti. Insomma una storia vera d’amore (intendiamoci, un amore normale, di tutti i giorni), raccontato per mezzo di emozioni dislocate nel tempo (a volte, data la nostra professione, scritte in latino: ve ne diamo un esempio). Una storia in cui il letto c’è; ma, contrariamente alla moda di oggi, è solo intravisto o intuito.

A questo punto (per evitare facile confusione nelle lettura) si avverte che ci siamo sposati il 26 dicembre del 1961 e che quindi per noi il Natale e l’anniversario del nostro matrimonio sono in certo qual modo una cosa sola.

Si avverte, infine, che le composizioni mie, sia prose che poesie, sono siglate con ‘c’, che sta per ‘Carlo’; mentre le poesie di mia moglie sono contrassegnate con ‘mg’, che sta per ‘Maria Giovanna’.

Quindi, come si dice, grazie dell’attenzione e buona lettura.

Montepulciano Settembre 2008. Carlo Lorenzini.

***

TITOLI E AMORE

Amore mio,

mi cantasti in un canto

che ha per titolo:

"Un amore per una vita".

Ma, se io ne componessi

uno per te,

dovrei rovesciare le parole,

e cantare così:

"Una vita per un amore".

(mg)

UN AMORE PER UNA VITA

Tutto era incominciato in un giorno in cui un miope sorriso di fanciulla aveva illuminato un'oscura aula universitaria di archeologia.

E quel sorriso era rivolto a me, che stavo dall'altra parte del grande tavolo, di fronte, reduce da dolorosi cammini di amare esperienze.

Un uomo ancora alle soglie della giovinezza; e già senza speranze, senza illusioni, senza gioie del presente, senza nostalgie del passato, senza affettuose prospettive per il futuro.

La vita, una pesante inutilità, che gli altri avevano voglia di vivere.

Frequentavo l'università, il cuore spento ad ogni curiosità intellettuale, ad ogni aspirazione professionale; impaziente solo di distrazioni e di evasioni; preoccupato di non essere mai a tu per tu con me stesso; desideroso solo, se mai mi riusciva, di perdere quella parte di me che mi era gravoso portarmi appresso.

Alla dolcezza di quel sorriso ero rimasto sconcertato. Un sorriso di donna, a me? E com'era possibile, così morto come mi sentivo, accendere ancora al riso la grazia di un volto femminile?

Inoltre, avevo concepito paura. Ché altre ragazze già mi avevano sorriso. E quei sorrisi mi avevano incantato; e all'incanto della loro magia il mio cuore aveva palpitato; e avevo sognato paradisi; ma poi presto quei sorrisi si erano spenti; o si erano risolti nell'indifferenza della derisione; o, addirittura, nella crudeltà della irrisione.

Per cui, sebbene a quella luce avessi provato un intimo compiacimento, nelle parole avevo dovuto realizzare uno spontaneo meccanismo di difesa.

Avevo detto:

- Anche tu della aristocrazia dei trenta e lode!?

Lei allora mi aveva guardato, con aria interrogativa. Ma non aveva smesso di sorridermi.

E avevo aggiunto:

- Vedo che sei preoccupata, perché non ti ricordi di minime cose. Tutte uguali, voi donne! Seducenti nelle vostre frivole vanità, suggerite atmosfere di lusinghevole e spensierata poesia. Ma è tutta apparenza! In realtà siete prosaiche, arriviste, egoiste e crudeli.

Nonostante la gratuita brutalità delle parole, lei non si era offesa; né aveva smesso di guardarmi e di sorridermi.

E' vero: le cose accadono e sono avvolte nel mistero.

Certo lei aveva guardato dentro il mio cuore; e subito, al di là delle parole così ostentatamente violente, per magica intuizione aveva visto un cuore che avrebbe amato oltre ogni modo; e che già amava dentro quel suo cuore così femminilmente sensibile e divinatore.

Poi io avevo continuato con le mie battute ironiche, ma, soprattutto, amare. E lei, sempre, aveva opposto la sua sorridente e disarmante dolcezza.

E così, ad un certo punto, anch'io sorridevo, e parlavo, ed ero cordialmente e piacevolmente conversevole.

E la sera eravamo compagni di viaggio, per il ritorno a casa. Prendevamo lo stesso treno.

Il giorno dopo eravamo diventati amici.

Poi, amici inseparabili.

Tutti gli angoli della città universitaria erano nostri.

Dopo le lezioni, lunghe passeggiate in cerca di solitudine: per parlare; per guardarci; per sognare; e per fare silenzio.

Ogni giorno sembrava che il giorno precedente avesse segnato un ulteriore progresso nella nostra amicizia e nella nostra intimità.

Lei poi aveva incominciato a guardarmi e a parlarmi e anche a non dire niente in modo eloquente. Nel vedermi, il suo volto sorrideva di luce nuova. Guardandomi, i suoi occhi splendevano di intima gioia. Mi diceva "tu" e chiamava il mio nome con trepida commozione della voce. Ma anche i suoi silenzi e i suoi taciti sovrappensiero erano, pur essi, non equivoche confessioni d'amore.

Ed io ero rimasto affascinato da quella amorosa dedizione. E da lei.

Era alta, esile, bionda. Parlava e sorrideva in un viso in cui risplendeva la grazia di una adolescenza innocente e sognatrice; ed era illuminato dalla aristocratica nobiltà di una intelligenza gratificata dalla sicurezza di una serena visione interiore. Gli occhiali le conferivano un'aria di intellettuale apparentemente fragile; ma, in realtà, ostinatamente e fervidamente curiosa della cultura e della vita. Quando sorrideva o parlava, le si illuminava soprattutto la fronte: che aveva candida, tranquillamente distesa, ricca di pensiero e di sentimento, armoniosamente modellata dalla passione del cuore e dalla chiarezza della mente.

Mi pareva di vivere in un miracolo; io, che in passato avevo distribuito tanto amore: mai ricambiato, spesso ignorato, a volte sgradito, o addirittura schernito: e che ora, invece, ero l'oggetto di un sentimento così fervidamente esclusivo.

Ero stupito ed ero lusingato.

Ma un po' anche atterrito.

Come ricambiare, infatti, quell'ardore di passione, dal momento che, oramai, mi sentivo come una sorgente inaridita? Con tanta intensità avevo distribuito, invano, amore, che ora il mio cuore lo sentivo esausto e arido/desolato.

Come, dunque, ricambiare quella gentilissima?

Mi tormentavo.

Ma erano pensieri che insorgevano quando lei era lontana; o, lei presente, quando me ne lasciava il tempo.

Per il resto, erano smemoramenti; rapito in compagnia di quella fanciulla bionda, poi bruna: in giro per la città universitaria e per i dintorni: che mi ascoltava, mi parlava, mi confortava, mi consolava, mi coccolava, mi viziava. Mi amava. Amava i miei vizi del corpo; li baciava. Amava le mie debolezze dell'anima; le mie crisi; le mie paure; la mia mancanza di passione; si inteneriva e si infervorava: "Amo io, per tutti e due!", diceva; e rideva; e quel riso mi era vita del cuore.

Prendevamo, per il ritorno, gli ultimi treni.

Per perderci, d'inverno, nei lungarni pisani.

Chiusi nei nostri cappotti, stretti l'uno all'altra, e nascosti nella nebbia, ci amavamo, parlavamo, tacevamo, e, assorti nei nostri pensieri, stavamo lungamente a guardare il cielo stellato, il brillio del fiume sotto i lampioni, e, in lontananza, il chiarore diffuso della città ormai notturna.

Oppure, per imboscarci, d'estate, nella pineta a bocca d'Arno, presso il mare.

Vi andavamo con il trenino, dopo le lezioni della mattina. Ci si smarriva in quel selvoso silenzio; e, inebriati della natura e dei nostri sentimenti, ci baciavamo, mangiavamo, bevevamo, ci guardavamo, parlavamo; e poi, sbigottiti dal cibo, dal vino, dagli odori, dal caldo, dalla gioventù, dalle lusinghe della speranza, dall'amore, ci tenevamo abbracciati, taciti e appassionati, in un velocissimo trascorrere del tempo e delle ore.

A volte, nei momenti di più intensa commozione del cuore, lei, guardando in alto, alle sublimi chiome dei pini, e, intorno, agli spinosi arbusti dell'aspra macchia mediterranea, esaltandosi ai profumi del bosco e del mare vicino, stringendosi ulteriormente a me nell'ardore del suo femminile abbandono, mi recitava i versi de "La pioggia nel pineto"...

Poi l'amore continuava sul trenino che ci riportava in città; e sul treno, verso casa.

La città, il mare, la campagna, i boschi, il vicino lago, i monti ci accoglievano di volta in volta nelle nostre vagabonde e smemoranti spedizioni.

La cultura, le avventure, l'amore erano la nostra quotidiana dimensione.

Dante e le utopie politiche e i sublimi sorrisi delle allegorie; Angelica e l'illusorio incantesimo d'amore e le sue dolci calamità; il Partenone e la luce dell'antica Grecia; Socrate e il dramma della verità; i tragici greci e il mistero delle colpe e dei destini; gli Etruschi e il buio dei tempi remoti; Plauto e il riso disincantato della stirpe latina; Cicerone e il tramonto delle civiltà; Lucrezio e l’eternità della materia; Catullo e l'eternità della passione; e altre e molte altre cose costituivano la nostra atmosfera culturale; il primo consapevole approccio ad un mondo meraviglioso, creato dagli uomini e per gli uomini: per saziare la loro divina curiosità, per contemplare, per evadere, per sublimare in una visione di composta serenità, di grandezza e di bellezza i grigiori, le dissonanze, i dolori, le tragedie dei singoli e dell'umanità intera.

E questa atmosfera mi esaltava.

Vivevo in una nuova realtà creata dal dolce sorriso e dalla luminosa e riposante bellezza di quella fanciulla, che era mia e che gioiva di essere mia.

E di quel sorriso mi si illuminavano i fatti culturali.

E per me, ora, erano tutt'uno la cultura e l'amore. E pensavo che certo, quelle sublimi ideazioni e invenzioni dello spirito umano erano nate tutte da avventure di incantate passioni d' amore: l'uomo le aveva trovate in sé o le aveva scoperte nella natura o nella storia, sempre sotto l'urgenza di un'ispirazione d'amore.

E quella fanciulla così appassionatamente amante, il volto egualmente illuminato dall'intelligenza di un fatto culturale o dalla dolcezza di un mio sorriso, mi diceva: e gli occhi li aveva accesi di intima gioia: "Io amo tutto questo meravigliosamente, perché meravigliosamente amo te! E' per l'amore mio per te, che vedo sublime tutto questo e lo amo".

Ed eravamo felici in quell'avventura e la vivevamo come in una favola.

E l'avventura e la favola incominciavano al mattino, quando l'accelerato delle sette si fermava nella piccola stazione di Luni, e lei, già sul treno, si affacciava per vedere se io c'ero. E poi il saluto. E poi quei suoi occhi dolci, che non si saziavano mai di guardarmi. E poi, ogni giorno, un pensiero gentile, una sorpresa; che scopriva quando, finite le lezioni, andavamo a fare colazione nei prati della città o nella campagna della periferia.

Erano occasioni di rapiti abbandoni sentimentali e amorosi: quando, lei seduta sull'erba, io, supino, mi assopivo nel suo grembo, la testa appoggiata sulle sue gambe; mentre lei, dal di sopra, amorosamente chinata, mi contemplava e mi accarezzava; poi io, svegliandomi, vedevo sopra di me quel suo volto così bello di stupita beatitudine, quei suoi occhi così vivi di trepida luce, quella linea della sua bocca così candidamente sensuale, la seduzione del suo seno così inconsapevolmente offerto; infine, quella sua verginale passione di amante e di amica, che mi tormentava d'amore e mi proteggeva di tenerezza.

Ed era bello anche quando, per fare più presto, andavamo a pranzare in latteria, vicino alla Sapienza: un pranzo che poi aveva bisogno di un robusto panino acquistato in drogheria.

Ma era un pranzo assieme, pieno di calda intimità....

Ed era bello anche nel suo piccolo ligure paese, in vista del Magra.

Nella profumata e ombrosa frescura della sua casa, durante i lunghi pomeriggi estivi, nell'antica sala, a tradurre il greco: gli interminabili e ardenti silenzi, gli sguardi struggenti, le parole sottovoce, il rapimento dei baci, gli amorosi sfinimenti. E, nell'intervallo della merenda, affacciati all'ampia finestra aperta sulla valle del fiume piena di verde e di colorate trasparenze, contro le lontananze delle montagne svanenti e la liquida purezza del cielo: nei suoi occhi, l'azzurro di quell'infinito azzurro di montagne e di cieli.

Ovvero, in giro per le sue colline, nel malinconico intenerimento di autunni trascoloranti.

O abbracciati lungo le vie, nel pungente grigiore di pomeriggi invernali.

Oppure, per le campagne, nello stordimento di vivaci profumi primaverili...

Ma, soprattutto, l’inesprimibile gioia di quelle passeggiate, chiusi nei cappotti e stretti l'uno all'altra sotto l'ombrello, quando il piovigginoso scirocco si mescolava al gelido tramontano.

Allora nel rigore di quei precipitosi tramonti invernali/d’inverno, solo la nostra irresponsabile follia aveva il coraggio di essere in giro per la fredda solitudine delle strade: attorno, un complice e deserto silenzio.

Ma era dolcissima musica il brusio della pioggia e il fruscio del vento tra gli ulivi e tra i rami spogli dei castagni.

Poi, era già scesa la sera; e le luci pubbliche: un verticale chiarore circoscritto e ovattato, a rompere la notturna e caliginosa umidità: apparivano improvvise nella densità nebbiosa, a regolari intervalli; e noi, in quei bui intermezzi, indugiavamo a dirci dolcezze, a fare e a sentire carezze...

Poi, intanto, erano passati i giorni, i mesi, e gli anni...

E noi, la dolce fanciulla e il giovane ragazzo, attraverso la meravigliosa favola, in cui non erano mancati i sortilegi della maga cattiva, eravamo diventati adulti.

E ora ci parlavamo, ci guardavamo, ci abbracciavamo, ci baciavamo, con nel cuore e nella fantasia la speranza e la visione di persone e di cose che ancora non c'erano, che ancora non esistevano; ma che già costituivano i sogni della nostra vita insieme...

Finché, un freddo e piovoso ultimo giorno di dicembre avevamo detto: "Sì, lo voglio!".

E la nostra avventura era continuata, nuova, ma uguale, in un lontano paese; in cui, giovani e ricchi di impazienza e di sogni, eravamo immigrati; a costruire, nel comune travaglio dell'esistenza, la nostra felicità e a contribuire al progresso nostro e della vita. (c).

***

1

PERCHE’.

Perché eri bella, perché eri casta e perché eri innamorata. E perché, subito, avevi messo il tuo cuore a consolare il mio cuore e avevi detto che era per tutta la vita. Perché tu, veramente, avevi messo tutta la tua vita al servizio di questo amore. "E ti ricordi poi...come ti amavo?". (c).

PREZIOSI RICORDI

Chiniamoci insieme, te ne prego,

sulle fragili perle del passato,

che rinascano a illusoria vita;

guardiamole mentre, iridescenti,

tremano tra le nostre mani unite;

lasciamole volare per un attimo:

"Ti ricordi del nostro professore?",

"E ti ricordi ancora di Maritza?",

"E ti ricordi poi... come ti amavo?".

Il ricordare insieme

è il più bel gioco. (mg).

***

2

NOI E LA NEVE

....E ancora pensieri. Pensieri lontani. Per esempio, pensieri a proposito della neve...

Generalmente la neve fa parte dei ricordi dell'infanzia. Per me non è così. Data la rarità delle nevicate negli inverni del mio paese d'origine, in Liguria. Semmai, in quegli inverni liguri, gelate e piogge e temporali e tempeste di vento. Ma quasi mai la neve.

Della neve della mia infanzia, dunque, ho ricordi labili ed evanescenti. Non più che un esile e candido tappeto, deserto e silenzioso, a ricoprire, raro e fragile, i tetti delle case nel paese, gli uliveti e i boschi di querce e di castagni, giù per la collina.

Di un'altra neve invece ho vivo ricordo. La neve, frequente negli inverni, abbondante e di lunga durata, qui a Montepulciano, negli anni Sessanta. Ricopriva, altissima, tetti, vie, strade, viottoli, camminamenti, campagna. Pesava, inerte e ostinata, sugli alberi, piegandoli, abbattendoli, rompendoli, straziandoli.

Noi eravamo giovani insegnanti, allora, appena sposati; Rita, la nostra unica figlia, ancora nella fantasia. Abitavamo in campagna, a mezza collina. E durante queste nevicate, andavamo a scuola a piedi, su per la ripida salita del Cimitero vecchio, fino alla Fortezza, sede del nostro Liceo. Assieme. Tenendoci, a volte, per mano. In mezzo a quel deserto tutto bianco. Accompagnati da quegli alti cipressi, che da due lati costeggiavano la via e che piegavano sgomenti le loro cime sotto il pesante carico. Del cimitero lì, lungo il cammino, quasi più nessuna traccia. Non il rumore delle corriere, delle automobili. Neve, e silenzio.

E, andando, ogni tanto mi diceva: "Sono stanca, fermiamoci un momento". E ci fermavamo, a guardare intorno, anelanti, le cose, le piante, ingoiate subito poco lontano dalla lattiginosa nebbiosità dell'aria. E ogni tanto lei guardava me, le guance rosse e il naso rosso. Incappucciata, insciarpata, incappottata, inguantata. Scoperti aveva solo il riso della bocca e il rosso candore di tutto il viso. Scoperto aveva solo il cuore, che splendeva nello scintillio degli occhi, mentre mi guardava.

Ma sotto quel cappuccio c'erano i suoi capelli lunghi e biondi; nascosto da quella sciarpa il suo collo candido ed esile e il suo seno di donna giovane, che palpitava pieno; protette da quei guanti le sue mani, lunghe e mobili, mani già di moglie e di amante; e sotto quel cappotto, il suo corpo, quasi ancora di ragazza...

Poi si riprendeva la via verso il Liceo, verso il fervore e l'appassionata avventura delle lezioni.

E dopo, il ritorno da scuola: per la stessa via, sulla stessa neve, in discesa, veloci, impazienti di arrivare... Il caldo e l'accoglienza della nostra casa. Il silenzio. La solitudine. La breve e febbrile preparazione del pranzo. Il continuo reciproco parlare sulle esperienze, le cose e le persone della mattinata. Il reciproco e continuo guardarci, con nel cuore e nei sensi pensieri espressi e pensieri nascosti. Il pranzo. I cibi, il vino. I cibi forti e il vino forte di Montepulciano, a cui non eravamo ancora del tutto abituati. Il breve riposo, dopo il pranzo. E poi, il lungo pomeriggio in casa, soli. E, fuori, la neve. La vedevamo cadere attraverso la finestra che dava sulla campagna. Cadeva in silenzio, ostinata, lungo l'immobilità biancastra di un cielo denso e compatto, che andava rapidamente verso il crepuscolo del tramonto e il buio della notte. Mentre noi eravamo nel nostro gran letto matrimoniale, abbracciati, a guardare la neve e a gemere sotto la violenza della nostra passione e lo sfinimento delle nostre carezze. (c).

TU DORMI...

Tu dormi,

disteso sul divano,

e il sole del tramonto

illumina il tuo volto,

che appare ora sereno,

ora crucciato.

Io più non leggo,

e mi perdo a guardarti,

a ricordare.

Da te, ecco, si staccano

pian piano,

come foglie

dall'albero in autunno,

fantasmi antichi, in folla:

lo studente un po' curvo

e allampanato

dagli occhi profondi

di cerbiatto;

il professore giovane

e sicuro;

il marito ribelle

e appassionato;

il padre ora entusiasta

ora deluso;

il compagno affettuoso

di questi anni...

Quante persone ho amato

in una sola!

Tutte in modo diverso

eppure uguale!

E questa foglia,

ancora un poco verde,

prego rimanga a lungo,

con tenacia, attaccata

sul suo ramo...

Ma tu, adesso, ti svegli;

e mi scopri incantata

a contemplarti;

e gli occhi ti s'accendono

a un sorriso:

volano via i fantasmi

ed i timori;

e la terra riprende

il sopravvento. (mg).

3

“PER TUTTA LA VITA”

Quando mia moglie quella sera, con parole di accorata meraviglia, come di donna innamorata e tradita, mi rimproverava il comportamento da me tenuto durante tutta la cena di amicizia fra colleghi di lavoro, non sapeva di aprirmi definitivamente gli occhi su una situazione che solo in confuso, fino a quel momento, avevo intuito, ma che non m'ero preoccupato, né mai mi sarei preoccupato di accertare e che forse sarebbe rimasta in me come una vaga irreale, anche se dolce sensazione; come di cosa solo distrattamente percepita; ma mai accertata; e quindi non mai esistita. E la nostra vita sarebbe continuata in quella serena e normale felicità che da anni caratterizzava i nostri rapporti.

Ma quelle sue parole, mentre parlava, mi aprirono gli occhi ad una situazione per me nuova. E, invece di offendermi, risvegliarono e indirettamente accarezzarono la mia maschile vanità; e mi offrirono quella certezza che evidentemente già era dentro di me; ma che, per diversi motivi, fra cui la paura dell'ignoto, mai avrei avuto la volontà e il coraggio di verificare. Allora improvvisamente capii il significato di tutta quella mia scomposta e anche un po' ingenuamente sguaiata euforia durate tutta la cena; e capii il perché del fatto che durante tutto quel tempo avevo continuato a vedere il viso dolce e meravigliato e offeso e scandalizzato di mia moglie lontano, come sfuocato in una nebbia: tanto che poi, quando, non potendo evidentemente più resistere al disagio morale in cui era venuta a trovarsi, aveva insistito che la portassi a casa, io mi ero risvegliato e mi ero addirittura meravigliato che fosse lì anche lei e che mi parlasse.

Capii dunque tutto questo.

Infatti mentre mia moglie mi parlava quelle parole accorate e offese, rividi: e me li sentii trapassare il cuore con meravigliata e sgomenta dolcezza: rividi quegli occhi di giovane donna, una ragazza, che, accesi in una sfida di conquista, per tutta la sera mi avevano perseguitato in un'opera di fascinoso adescamento: cui io, pur provando un certo disagio, non avevo saputo sottrarmi: al fine evidentemente di portare a compimento, ora lo sapevo, durante quella conviviale riunione, una promessa di conquista da tempo concepita e a lungo insistita.

E, come un'illuminante rivelazione, mentre mia moglie mi parlava, rividi tutta la storia.

Quel cercare ogni occasione, per incontrarmi e parlarmi; quell'ascoltare sempre le mie parole con aria rapita; quel continuo provocarmi a conversazione, per sapere di me, ma soprattutto per parlarmi di lei, dei suoi problemi, delle sue pene, dei suoi amori: le donne parlano volentieri delle pene e delle delusioni in altri amori con l'uomo che vogliono conquistare!: quell'aria con cui sempre mi guardava, dolce, dimessa e malinconica; oppure vagamente e allusivamente sorridente; oppure, a volte, nei momenti di più cruda e spavalda seduzione, quell'atteggiamento di fascinosa e ironica sfida, con cui la morbida luce dei suoi occhi silenziosamente e ostentatamente aggrediva, di tra il fumo della sua sigaretta, sensualmente gustata, la mia lusingata e fragile arrendevolezza...

E questa improvvisa e totale rivelazione mi fece apparire certezza, quella che fino a quel momento era stata solo una vaga sensazione e presunzione.

La certezza di essere amato come non mai; come nessun altro mai; da una creatura come nessun'altra mai.

E così mia moglie, con quelle sue accorate parole d'amore e di gelosia, diede l'avvio ad un periodo di mio folle e umiliante traviamento.

Ma anche questa malattia dell'anima mi era stata provvidenziale; come la malattia del corpo, a suo tempo (*)

Infatti dopo un periodo che parve interminabile, di stravaganze, sregolatezze, follie, alla ricerca dell'impossibile: quello della giovane donna era stato tutto un gioco; e aveva riso, infatti, e se ne era meravigliata, quasi avendo l'aria di non capire, quando, anch'io avendo l'aria di non dire, le avevo fatto intendere che finalmente aderivo alle sue ...:

E quel giorno ero sdraiato nel divano, la faccia al muro, lacerato e abbrutito nella mia frenesia di un impossibile sogno di amore e di adolescenza; quando dietro di me sentii aprirsi la porta dello studio...

Poi non sentii più nulla. Ma immaginai e il cuore incominciò a battermi.

Poi sentii un pianto sommesso: e io la rividi, nella memoria, in piedi di fronte a me, col suo bel viso nobile innocentemente innamorato e bagnato di lagrime, come aveva fatto altre volte, quando si era trovata disperata di fronte alle mie frequenti mattità e intemperanze di fidanzato e di marito.

Poi udii: "E per la bambina? Come dobbiamo fare?".

Allora il cuore mi scoppiò di commozione, di amore e di vergogna.

Mi voltai. E non vidi nulla a causa delle lagrime.

Ma capii che il miracolo stava davanti a me. In quella mia giovane moglie, nella sua anima casta e nella sua bellezza aristocratica, che non si vergognava di dirmi, in nome dell'amore, che era disperata e che, anche se io non ne volevo più sapere, il suo sentimento era sempre quello profondo e totale di un tempo...

Di quando, nella solitudine dei ruderi medioevali dei lungarni pisani, riverberati in quelle serate invernali: in attesa noi del treno per casa: dalle lontane luci della città, io le chiedevo: "Vuoi?"; e lei non rispondeva; ma reclinava il suo bel capo sul mio petto e mi diceva: "Lo sai che io ti amo così! Per tutta la vita". (c).

(*)Vedi, a questo proposito, in ‘Com’eravamo’, il racconto intitolato ‘Una scoperta’. pag. 222.

BIANCO INFERNO

Già non è più dolore; è stordimento.

Ed ormai, vera naufraga, m'arrendo,

sulla lastra di ghiaccio

che il mare, lentamente, sta struggendo.

Ché ti rapisce un turbine violento.

E, se invochi il mio nome,

il tuo grido,

deviato dal vento,

nell'infinito spazio va morendo.

O, nel mio bianco inferno,

tu fosti un sogno

che mi finsi vivendo?

Ma cercherò altre mani;

fino a che l'onda avara

non travolga

l'isola lieve

che mi regge a stento. (mg). ***

4

DUE PIANTI

Quando tu mi guardi,

e i tuoi occhi brillano

d'amore,

e, nella luce,

sono velati di malinconia,

io lo so che tu piangi,

moglie;

e vorresti che io fossi felice.

E, allora, anch'io piango;

perché anch'io

vorrei essere felice,

con te. (c).

UN FANTOCCIO DI PANE

Tra noi l'amore, intriso d'abitudine,

è un fantoccio di pane un po' stantio.

E' scambio sottovoce di parole;

è un accertarsi, quieto, dell'assenso;

filo continuo, ma così sottile!

Su questa fune, fragile e corrosa,

incespica la vecchia ballerina;

nostalgica di quel tremendo amore,

in lotta coi parenti e col paese:

l'amore e morte di Romeo e Giulietta!;

ed invano si sforza di seguire

la musica di quei giovani anni,

di fede certa d'esser come rocca,

d'amore lieto, uguale in ogni fiaba:

"E vissero felici e contenti...".

Forse sì, nonostante le ferite,

che poi...

Forse sì, che di più non è concesso.

Ma, intanto, in questo gioco un po' intristito,

conscia d'aver perduto troppe volte,

mi riapproprio dei brani del pudore...

ed esito a narrarti le mie favole:

le favole terribili;

che mi racconto quando sono sola.

(mg).

***

5

NELL’OLIVETO

Oggi, venerdì cinque dicembre mille novecento novanta sette, ho finito di cogliere le olive. Una lunga maratona. Più di un mese, dagli ultimi giorni di Ottobre. Spesso interrotta dalla pioggia. Nei primi giorni coglievamo insieme, soli, io e mia moglie. Noi due soli, nel deserto della campagna. Io coglievo, aiutandomi con la scala, le cime poste su in alto e periferiche. Lei, in piedi, da terra, coglieva le rame basse, quelle a portata delle sue mani. Oppure, seduta in una seggiola, disolivava i rami, che io, potando, le preparavo. Insieme coglievamo soltanto al mattino. Nel pomeriggio, quei pomeriggi ormai corti e subito precipitanti nel crepuscolo, per immergersi presto nella notte, coglievo da solo. Oppure li passavamo in casa: lei a riposare, a leggere, a guardare la Televisione, a scrivere al computer, oppure a fare da mangiare, per il pranzo del giorno dopo; io, anch'io a riposare, a scrivere, a leggere, o alle prese con qualche lezione.

Durante la coglitura insieme, poche le parole fra noi. Ad un certo punto della vita in comune, fra coniugi, il silenzio è l'espressione più affettuosa, più eloquente; e la più normale. Il silenzio e la meditazione. Nella maturità, più che di parole si vive di pensieri, perché si vive più che altro di ricordi, di nostalgie e di paure, dimensioni egualmente difficili da esprimere. Lei, non so cosa pensava durante quei suoi lunghi silenzi nella raccolta. Ma io avevo dei pensieri lontani. E ogni tanto, quando era un po' che non la vedevo, e non la sentivo, la chiamavo: "Nanna, come va?". E allora lei mi rispondeva: "Va bene. Ma fa un po' freddo"; oppure: "Potrebbe andare meglio, in questa pianta sono piccole e rade. E' un'ora che colgo e la cestella è ancora quasi vuota"; oppure: "Sono fortunata, qui dove mi trovo ce ne sono tante e grosse, e poste molto in basso"; oppure: "Stamattina il tempo non scherza, è un'aria da neve". E poi di nuovo silenzio. Ma a me piaceva, ogni tanto, sentire la sua voce; una voce, chiara, casta, musicale, rimasta giovane e squillante, nonostante l'usura degli anni; una voce ancora da giovinetta. Una voce 'mia', che è così solo quando parla a me.

E poi ancora silenzio... (c).

***

OGGI NON MI PARLARE...

Oggi, non mi parlare!

I pensieri son tesi a ricontare

i ciocchi già bruciati,

per tener vivo il fuoco della vita.

Oggi, non mi guardare!

Gli sguardi sono tesi a sorvegliare

gli assetati deserti

del giardino languente della vita.

Oggi, non mi toccare!

Le mani sono tese a riparare

le mille e mille crepe

dello splendido tempio della vita...

Ma, se tu lo farai con tanto amore,

per un istante ancora,

traboccheranno lucidi tesori

dall'argentina fonte della vita.

(mg).

6

INCUBO

E improvvisamente

le mie gambe tremarono;

e il mio cuore si fermò;

e il mondo mi parve deserto,

senza le tue caste dolcezze

di moglie,

e il tuo antico sorriso

di giovinetta.

Oh, la luce dei tuoi occhi!

sempre rapiti,

come negli incanti

del primo amore! (c).

LETTERA A CARLO.

Tutti gli anni ti ho scritto, per Natale,

con breve augurio, una poesia d'amore;

oggi, però, l'amore appare vano,

un pallido fantasma, un'illusione;

e la tremante fragile farfalla,

nostra ultima dea, speranza amata,

mi sta lasciando; anzi, ha già preso il volo:

deve sfuggire all'orrida valanga,

che, fango e pietre, a noi rovina addosso.

Mi sento già afferrare... Ma ora scorgo,

nel nero, ancora il bel bagliore d'oro

e il battere delle ali variopinte.

Così ritrovo in cuore fede e amore...

"Quando sarò per cedere a quel mostro,

con la mia mano cercherò la tua:

ci sarà il tempo per un dolce addio". (mg).

***

7

I TUOI OCCHI ARDENTI E LUMINOSI, SEMPRE

Avanti l'ora di apertura dell'ambulatorio, dopo il cappuccino e la pasta nel bar profumato di sigarette, di caffè e di vaniglia, abbiamo girovagato per le antiche vie, abbracciati, nella fresca e dolcissima mattina del caldo luglio di Sinalunga. Il tuo volto era bellissimo e splendido di giovanile incanto. I tuoi occhi riflettevano l'intima beatitudine di essere assieme a me, in giro per il mondo; come in altri tempi. Ed erano pieni di riso. Ed erano ardenti e luminosi.

E a me: in quel tuo appassionato fervore; in quei tuoi limpidi sguardi; in quelle tue continue risa, nervose di femminile compiacimento; in quel tuo non smettere mai di avere il tuo viso a ridere al mio viso; a me: in quella tua gioiosa esaltazione dello spirito e dei sensi; in quella tua ostinata e tenera dedizione di moglie e di amante: sembrava di contemplare ancora la fanciulla dei nostri primi incontri d'amore.

E, mentre ti stringevo al mio cuore in quella tua indifesa ebbrezza di felicità, e mentre ti guardavo, pensavo che i tuoi occhi sarebbero rimasti così, ardenti e luminosi, sempre; anche se si fossero avverate le angosciose paure che ci conducevano a quell'appuntamento oculistico nel tempo di piena estate. (c).

IL TUO SORRISO

Presto non vedrò più.

Ma, se potrò portare,

nel buio che m'attende,

il tuo sorriso:

balenerà una luce

nel mio cuore,

usbergo scintillante

alla mia pena...

Eppure so

che lo strazio più grande

sarà di non sapere

se ancora, o quando,

mi sorriderai.

(mg).

***

8

RACCONTO

Eri, una volta...

Oh, il ricordo,

ora che siamo verso il tramonto

e il cuore ci duole

guardando indietro;

e ci trema,

guardando avanti;

e si consola

d'un trepido calore,

nella tenerezza

del presente...

Eri alta, esile, bionda...

Mi parlavi e sorridevi,

e nei tuoi occhi

c'era la luce,

accecante,

avvampante,

dell'amore,

della passione...

Una volta, guardavamo lontano,

in avanti...

E nel cuore

avevamo una cosmica energia,

capace di incendiare

e di deflagrare

la vita... (c).

NON PIU'

Non più giovane palma che si leva

dritta e sottile al colmo dell'estate

e non teme l'arrivo dei rigori:

è duttile e saprà piegarsi al vento,

non darà spazio ai colpi della grandine,

dormirà, se vorrà venir la neve;

e, intanto, diverrà più grande e bella.

Non sembri più così, da tanto tempo.

Somigli a quella quercia che amo tanto,

da troppi anni esposta alle tempeste,

che si inclina e si storce in ogni ramo,

cede, non lotta, sopravvive e basta,

e il tronco è tutto rughe e fondi solchi,

le foglie divorate dagli insetti,

da funghi velenosi e inquinamenti;

pure produce ancora qualche ghianda,

offre asilo agli uccelli, per i nidi,

ci dormono ora l'upupa, ora il falco,

nel suo cavo ha la tana uno scoiattolo,

tra le radici ha i buchi delle talpe;

e, a noi, dà gioia agli occhi e pace al cuore.

Sembri una quercia, ormai, rugosa e storta;

ma ancora mi ripari e mi conforti. (mg).

***

9

COME IN UNA NUOVA BETLEMME

Oh, Nanna, l'altra sera da don Soldini, a Torrenieri! Tra la molta gente estranea, lontana, ho cercato il tuo sorriso; quel tuo sorriso buono, soave, che mi conosce; quel sorriso di cui tu, da lunghissimo tempo scaldi e illumini la mia vita. Ma non c'era. E tutto è rimasto spento, buio. E io ero solo.

Ma poi, come nel miracolo della Natività, l'ho ritrovato, acceso, qualche sera dopo, in una piccola Città santa, a Pienza, come in una nuova Betlemme; l'ho ritrovato che mi splendeva in una stalla, in una mangiatoia...

E la cometa ha continuato a illuminare nel cielo della nostra vita... Tuo Carlo. (c).

PER UN’ORA SOLTANTO

Vorrei lasciassi le parole-sterpo,

che danno solo secchi crepitii;

e reinventassi le parole in boccio.

Se vuoi, ne troverai di fresche e vive,

le parole-germoglio verdi e nuove,

che frusciano alla musica che il vento

fa alitando in mezzo ai pini:

solo promesse, ma meravigliose.

Se le udrò, sarò anch’io di nuovo giovane,

per un’ora soltanto. E’ primavera. (mg).

***

10

IL DOLCE TUO NOME

Il tuo volto, moglie,

a parlarmi

nell'impietosa crudezza della luce.

E ho visto le tue pallide rughe,

e la lunga stanchezza del viso,

e i segni, negli occhi,

dell'infinita malinconia

del vivere,

a spegnere,

nel sereno di una linea grigia,

la luce candida del tuo riso.

Ma la mia tenerezza

ha ancora guardato

l'antica tua casta bellezza;

e il mio cuore

ancora ha sorriso

ad una bionda fanciulla

di antichi lungarni pisani;

e ti ha ancora chiamata

col dolce tuo nome di "Nanna". (c).

TRE SEMPLICI PAROLE

Voglio rubare ancora tre parole,

le più semplici, a esprimere un amore,

che dura da cent’anni, e sempre vive;

anzi è un amore che non sa morire

-

S’abbevera a sorgenti misteriose

e riprende il suo corso come fiume,

che, finito sotterra, poi riappare.

-

Si nutre di una foglia, come fuoco

che, divorato tutto il combustibile,

sprizza, per quella foglia, dalla cenere.

-

E germina di nuovo come il seme

antico, dentro il campo che è a riposo,

che s’apre in non mai visti girasoli.

-

Il mio amore è quel fiume, il fuoco, il seme.

Sono tre le mie semplici parole

per un amore che non sa morire, (mg).

***

11

MOGLIE E MADRE

Nei momenti di maggiore fantasticheria, quando i pensieri nati dalla memoria e dalla realtà si sovrappongono e si confondono, mi succede che assomiglio l'antica figura di mia madre con la presente figura di mia moglie; e questa mi sembra quella: la stessa abnegazione per la casa e la famiglia, la stessa scontrosa dolcezza, la stessa fragilità psicologica, e, in fondo, anche la stessa fragilità fisica; e a me par d'essere ancora l'antico ragazzo, con ancora in casa la madre che lo ama, lo protegge, lo vizia, lo sgrida; e la tenera materna sospensione con cui mi tiene fra le braccia dopo i nostri deliri d'amore, dolcemente rafforza questa mia impressione. E, a volte, quando contemplo la grazia ormai stanca del suo viso, il cuore mi si riempie della stessa tenerezza di quando guardavo il viso serenamente sofferente di mia madre ed ero preso da un angoscioso senso di precarietà e dalla paura dell'abbandono. (c).

IL MIO LUNGO AMORE

Mentre s’addorme ogni vitale slancio,

resta nel fondo un fioco fuoco cremisi,

un tizzo ricoperto ormai di cenere,

che, pur, traluce come fulva lava,

che brilla, intatta, sotto bianca neve...

E sai che parlo del mio lungo amore. (mg).

***

12

PER UN ANNIVERSARIO

Oggi è anche l'anniversario del nostro matrimonio: 26 Dicembre 1961. Tanti anni fa; una vita; la vita che conta.

Stamattina, mentre facevamo colazione noi due soli (Rita non era ancora scesa), io guardavo mia moglie. Nonostante gli anni, nonostante le sofferenze, mi sembrava più bella di allora, più bella di sempre: una luce di grazia, di casto appagamento amoroso, di serena felicità le illuminava il volto, che era giovanile, dolce, amabile.

Credo che oggi sarà una giornata felice e piena di intimità. (c).

A DIRTI CIO' CHE SAI.

Ad immagini-aquila io non chiedo

più di portarmi a rupi inaccessibili,

o su splendenti cime di cristallo,

dove immenso è lo spazio, eterno il tempo.

Anche se là, lo so, risveglierei

a nuove forme una passione antica,

suonando un plettro datomi da un dio.

Né, vecchia come lui, m'attento il cèrilo(*)

imitare, che, sulle ali delle alcioni,

osa varcare vastità di mare:

sempre troppo alta e troppo lunga via.

Così a immagini-rondini, presaghe

del brutto tempo che già sta vicino,

chiedo un volo radente, breve breve:

con esse, ormai, mi basti ritornare

a dirti ciò che sai: che io ti amo. (mg).

(*) Antigono di Caristo, nell'Eubea (III sec. a. Cr), racconta come il cèrilo, cioè l'alcione maschio, quando per vecchiezza diventa debole, viene portato da alcionesse giovani in volo sulle onde del mare. A prova lo scrittore cita questi versi del poeta greco Alcmane (VII sec. a. Cr.): Non più, o vergini dalle voci soavi, dal canto divino, le mie membra hanno forza di portarmi. Oh, fossi io un cèrilo, che, sulle ali delle alcioni, nel cuore senza paura, trasvola sul fiore dell'onda; sacro uccello del rosso colore del mare!”. (traduzione di c).

***

13

BUON NATALE

Mia cara Nanna. Buon Natale, Buon Anno nuovo. E soprattutto, buon compleanno di matrimonio 1961-2003. Quarantadue anni compiuti. Veramente una vita. E tu, ripensando, hai detto in una poesia:

“Se ancora avessi l'abito di sposa,/ credo che aprirei spesso quel cassetto./ E dai veli uscirebbe come allora./ Mi ridarebbe l'attimo trascorso./ Diverrebbe il mio santo taumaturgo./ La chiave dello scrigno più segreto... / Se ancora avessi l'abito di sposa!”.

Ma lo hai ancora l'abito di sposa, mia cara Nanna. Io lo vedo. Lo tocco. Ed è il più bello che possa mai esistere. Ne sento il fruscio, il profumo. Lo hai nel tuo bel volto, quando pensi a me, quando ti rivolgi a me, quando parli di me, quando racconti alla gente di com'ero tanto malato e di come ora sto meglio; lo hai nel tuo sorriso, quando mi sorridi, e quando sorridi alla gente parlando delle tue poesie, perché pensi che molte di quelle tue bellissime poesie, o tutte?, esistono anche in grazia del tuo amore per me; lo hai quando sei a letto e dormi, quando siamo a letto e non dormi, quando cucini, quando andiamo fuori insieme a fare la spesa o andiamo insieme dai dottori; lo hai quando pensi al futuro e pensi che poi la mia malattia... e che poi la tua vista...; lo hai quando fai le tue poesie, quelle liriche e quelle in tono minore, che anche quelle sono liriche, anche se parlano di grembiuli da cucina; perché, anche in esse, è il tuo cuore che canta; lo hai quando telefoni a Rita; quando fai il presepio e quando ne sei compiaciuta e lo ammiri; lo hai quando ti meravigli della musica dell'alberino-orchestra, lo hai quando realizzi i tuoi piatti di cucina e i tuoi dolci che ti si rompono, che sono sublimi realizzazioni e sono opere d'arte; lo hai ogni mattina quando scendi per la colazione e racconti che hai sognato, che avevi un sonno che non ti potevi alzare e che hai un freddo cane.

Lo hai, mia dolce Nanna, questo tuo abito di sposa e lo indossi, e non lo hai smesso mai, che è magnifico e risplende di una luce straordinaria, che è la luce dell'amore. E io questo tuo abito l'ho guardato e l'ho ammirato a lungo. Ed ora mi pare di averlo ancora anch'io il mio abito di sposo, anche se non così splendente, ma più serio e da uomo. E di averlo sempre avuto. E di non averlo smesso mai.

Un abbraccio, mia cara Nanna, che duri il più a lungo possibile. Il tuo Carlo. (c).

L’AMORE PIU’ GRANDE

Dopo averne parlato molte volte,

ancora mi ritrovo a domandarmi

se c’è un amore tra tutti più grande;

e, se c’è, in che cosa esso consista.

Se c’è, credo esso sia nel poter dire,

con intima certezza a chi si ama

le poche semplicissime parole:

“Con l’ultimo pensiero della mente

e con l’ultimo battito del cuore,

mentre si accenderà, in un solo lampo,

la visione di tutta la mia vita,

è te che troverò nel mio ricordo,

è te che cercherò nel mio rimpianto”.

Son parole che anch’io ti posso dire. (mg).

***

14

GRAZIE DI TUTTO

Grazie di tutto.

Grazie, Nanna, del cuore con cui vivi la tua vita, e della gioia con cui ne assapori le bellezze e le dolcezze; e della serenità con cui ne sopporti le contrarietà e le amarezze. E grazie del sorriso con cui la illumini.

Grazie per l'innocenza e lo stupore con cui guardi il cielo con la sua aria, la sua luce, la sua luna e le sue stelle; e per il cuore con cui guardi la natura, con la sua vita, i suoi colori, i suoi profumi, la sua bontà.

Grazie del cuore con cui scrivi le tue poesie; e per il cuore con cui le leggi a me e agli altri; e grazie per la gioia che provi quando gli altri, che le leggono, ti dicono che sono belle e profonde. E grazie per il profumo di cui esse profumano la vita.

Grazie per la gioia con cui vivi questo Natale; per la poesia con cui hai fatto il presepio; il tuo presepio; per la gioia mia, degli ospiti che vengono, e tua; grazie perché ogni volta lo fai ammirare come il simbolo della tua casa, della nostra casa, del tuo focolare domestico, della tua serenità e della tua felicità. E grazie per la dolcezza e la pensosità con cui, nei momenti in cui sei con te stessa, canti sottovoce "Tu scendi dalla stelle"; e ogni altro canto religioso di nostalgia e di edificazione.

E grazie per la determinazione con cui oggi, Natale, nonostante fossimo soli, hai voluto che nella nostra casa fosse festa. Grazie per le candele rosse accese durante il pranzo, per la tovaglia natalizia, per i piatti, i bicchieri e le bottiglie dalla fattura elegante, per le posate d'argento, per il tortino, per le patatine al burro, per il dolce casalingo al caffè e al cioccolato che hai voluto tu stessa confezionare, per il caffè e per tutto; e soprattutto per la serenità, la gioia e il sorriso con cui sedevi di fronte a me, a rendermi lieta e sacra la festa.

Grazie per tutte le altre cose belle e grandi, che ora non ricordo; e per tutte le altre che ricordo e che sarebbe lungo menzionare.

E grazie anche, e soprattutto, perché sei mia moglie e io tuo marito.

Grazie di tutto. Con amore. tuo Carlo. (c).

UN NATALE SOLITARIO

Tra pochi giorni arriverà il Natale.

Sarà per noi un Natale solitario:

l'inferma da accudire, ogni momento;

i figli su in Baviera, per lavoro:

"Tanti auguri e un abbraccio", virtuale;

i parenti, lontani, per telefono;

il segno di un presepe, in terracotta;

l'albero? no, ci basterà una stella;

un pranzo semplicissimo e poi, forse,

torrone ed un bicchiere di spumante;

e, dopo, il quieto scorrere del tempo

(molti i silenzi e rare le parole)

incontro a sera, qui, nella campagna,

vestita del suo abito d'inverno.

Il Natale che viene sarà, certo,

un Natale in sordina, solitario;

ma son sicura che non sarà triste.

Sarà. per me, sereno, confortevole;

perché, se non possiamo averne un altro,

so che tu vuoi dividerlo con me. (mg).

***

15

LE MIE PASTICCHE E IL TUO SORRISO

Mia cara Nanna.

Prima una pasticca di Mirapexin; poi mezza pasticca, sempre di Mirapexin; poi mezza pasticca di Sinemet. Era circa il mezzogiorno del dodici di dicembre di questo anno 2005. Ed eravamo nella sala d'aspetto della stazione di Piacenza. Reduci dai nostri 'successi' letterari. Prima di mangiare il nostro panino, in attesa del treno per il ritorno. Io, ormai in crisi di astinenza, prendevo le mie pasticche, che hanno il compito ormai di sostituire le funzioni di certe mie cellule cerebrali che sono uscite un po' matte. Tu eri seduta accanto a me. Ed eravamo rivolti l'uno verso l'altra. Tu, per agevolare i miei incerti movimenti, tenevi in mano la bottiglietta dell'acqua opportunamente stappata e me la porgevi ad ogni mia assunzione di pasticca. Un sorso ogni volta. E, seduta accanto a me, rivolta verso di me, mi guardavi nella mia stanchezza e nella mia malattia e nella mia incertezza dei movimenti. E mi sorridevi. E avevi negli occhi, quei tuoi occhi che ormai anche loro fanno i matti come le mie cellule cerebrali, avevi negli occhi la luce di chi guarda una cosa preziosa e bella. E quello sguardo e quel sorriso ti rendevano preziosa e bella. E anch'io ti guardavo come una cosa preziosa e bella. E pensavo al tuo cuore, quel tuo cuore grande di poeta, che ha saputo dire i pensieri e i ritmi del nostro 'Natale solitario', la poesia premiata al concorso. E ti ho fissata così nella mia mente e nel mio cuore, mentre mi guardavi prendere le pillole e mentre ogni volta mi davi l'acqua, in quella tua attitudine piena di grazia femminile e di premurosa affezione, piena di bellezza. Ed è una delle immagini di te, ma sono tante e tutte care!, che porterò nel mio cuore nei giorni della mia vita. Grazie. (c).

INSIEME

Noi due, un tempo, giovani cerbiatti,

nel bosco ricoperto, a primavera,

da tappeti di primule e pervinche,

ci inseguimmo, frementi, in corse e assalti,

fino a che, sazi ormai di spinte e scherzi,

gioco d'amore, insieme, assaporammo.

Noi due, l'estate, cupidi colombi,

sempre in cerca di tenere carezze

dall'alba di quei soli fiammeggianti

fino all'esausta pace dei tramonti,

insieme uniti, fabbricammo il nido,

al prodigio di nascite esultando.

Noi due, nei freschi giorni dell'autunno,

cavalli chiusi dentro alti recinti

a pascere soltanto l'erba molle,

senza più applausi e senza folle urlanti,

perdemmo, insieme ancora, i nostri figli,

quei puledri, di gare già impazienti.

Noi due, poiché minaccia il triste inverno,

tartarughe rugose di cent'anni,

scrutiamo, tutto attorno, l'orizzonte

per sapere se ancora ci è concesso,

prima di farci vincere dal sonno,

di rubare, ma insieme, qualche istante. (mg).

***

16

QUATTRO PASSI IN UN MATTONE

Mia cara Nanna.

Come fare a scriverti? Cosa dirti di bello e di affettuoso, che non ti abbia già detto in precedenza? Un gioiello sarebbe più semplice. Vai su dal Bernardini, chiedi, lui ti espone; tu guardi; uno ti piace; anche il prezzo è giusto; lo prendi; lo paghi; e te ne vieni via soddisfatto; sicuro che un gioiello farà sempre il suo effetto. Ma anche questa soluzione... Più facile a dirla che a metterla in atto. Perché andar fin lassù: con te; addio la sorpresa. E andarci, senza di te... Ormai è impensabile. Hai visto l’altro giorno, quando siamo andati in banca? E anche la volta dopo, quando ci siamo ritornati? Il posteggio che non si trovava e poi la faccenda del ‘ventolin’. Io che un tempo le mie gambe erano gambe dalle sette leghe, come gli stivali della favola... Ora, come si dice, faccio quattro passi in un mattone ed ho per amico il bastone. Oltre te, naturalmente. Tu sei diventata il bastone della mia vecchiaia. Tu, però, un bastone magico, come i famosi stivali di cui dicevo. Non mi fai fare sette leghe; ma, insomma, mi aiuti. E quando sono in difficoltà, invece di preoccuparti, mi dài la mano e mi sorridi e mi dici ‘su che ce la fai’. E allora io guardo quel sorriso, divento subito forte e ce la faccio. Mia cara Nanna, ho incominciato che non sapevo che dirti. E ora pur con le lacrime agli occhi (vedi, le mie parole fanno piangere anche me, oltre che gli altri), non finirei più di scrivere. Intanto, voglio dirti che il giorno in cui siamo andati in banca per i tuoi gioielli, è stato per me uno dei giorni più belli della mia vita. Perché (certo i gioielli fanno straordinari scherzi nell’animo di una donna, ne sublimano la femminilità e la sottraggono alla fiscale conta degli anni, la rendono un’eterna primavera), perché, andando verso la banca, ti sentivo accanto a me, una donna che, nel pensiero dei tuoi gioielli, uno per uno (ad ognuno, un avvenimento; e, insieme, la meravigliosa avventura), rivivevi tutto il tuo amore della vita e lo benedivi. E benedivi le case dove via via questo amore aveva stanziato. Fino all’ultima, quella definitiva, la più intensa; questa nostra, in cui Emilio e Rita spesso ci vengono a trovare (a proposito, anche a loro un abbraccio di auguri, che oggi sono qui con noi), la casa con la quercia, i tre gatti, gli specchi fotovoltaici e l’aristocratica dipendenza ancora da arredare, ma con un caminetto che ha un tiraggio che è una meraviglia... Ma non posso andare avanti, perché anch’io, ripensando a questa avventura, che ormai dura da più che quarantacinque anni, mi commuovo e piango e anch’io benedico la mia stella. Ti abbraccio. Il tuo Carlo come non mai. (c).

SPARTIRE VECCHIEZZA INSIEME.

Sentire dentro a sé, spiando in lui,

lo svanire di un alito di forza

o dell’ultima nascosta freschezza

del petalo finora mai caduto;

o, intuendo ciò in sé, scorgerlo in lui.

La speranza dilegua con la forza.

E’ ormai d’obbligo l’appoggio reciproco.

Il tempo amici da amanti ci rende

e il ricordare l’antica passione

dà spesso fiele amaro, senza miele.

E’ difficile dono lo spartire

vecchiezza insieme, eppure ci è gradito:

s’alzi la coppa d’incolore vino,

che poco è dolce e poco ci sostiene,

a scarsa gioia di un brindisi muto:

che resti lungi la temuta ambascia

nera più della parca, tetro spettro

che sopra incombe, il rimanere soli,

un anidro deserto senza vita. (mg).

***

17

LE NOSTRE CENTO E UNA PRIMAVERE

Mia cara Nanna.

Ed ora le nostre primavere sono centouna o cento due (le tartarghe centenarie di ‘Insieme’, ricordi?). Non so. Ma che importa? Se è ancora mattino e la cucina profuma di caffè e i gatti, non curandosi che è Natale, hanno preteso da mangiare e hanno mangiato, alla faccia di chi si preoccupa per loro? E che importa, se tu sei lì di fronte a me con la tua cassetta e il tuo piccolo registratore in mano e mi dici che hai composto un’altra poesia d’amore e mi dici anche che sei contenta perché il pranzo di Natale è pronto antipasto primo secondo e dolce? E che importa, se anche oggi con la tua poesia mi farai piangere perché quei versi esprimono un cuore irriducibile, che non la smetterà mai di essere come se lui di primavere ne avesse solo quindici o sedici? E che importa, se poi, comunque, ci sussureremo nel vento le cose più dolci che mente umana possa immaginare, come, metti, ‘mia cara’, ‘mio caro’, ‘ti amo’?; e se nel vento a renderci immortali rimmarrà il canto della nostra poesia? se rimarrà la gioia di quei tuoi “giorni belli del sole e del grano”(*) e lo stupore del mio Sereno di fronte alla grazia femminile della Pina? (*) e se oggi il Signore ci concede di essere ancora qui a dirci: “Buon Natale!”, “Buone Feste!”, “Buon Anno!”, “Buon compleanno di matrimonio!”. Vedi? In fondo, come dici tu, è piacevole dono “lo “spartire vecchiezza insieme”. Anche se dono difficile. Un abbraccio. Tuo Carlo. (c).

(*) Si tratta del verso di una poesia edita di lei, ‘Quei giorni belli del sole e del grano’; e dei personaggi di un racconto inedito di lui, ‘Un altro più soave profumo’.

SUSSURRI NEL VENTO

Chi di noi due sussurrerà nel vento

dolcezze all’altro a ogni alito di foglia?

Se tu, dirai parole di ricordo

di un amore che, rosse, imporporate,

a ogni incontro le gote e palpitanti

rendeva i nostri cuori; e, ad ogni addio,

lasciava in noi limante nostalgia.

Se io, dirò parole di certezza

di un amore più forte ad ogni ostacolo:

solo appena velato e, poi, ancora

robusto più di centenaria quercia

ed ai baci tenace più che edera.

Chi di noi due sussurrerà nel vento

dolcezze all’altro, nel fruscio di fronde?

Se tu, dirai parole di conforto

lieve, che inganni la mia lunga attesa,

che calmi la mia sete, la mia fame,

ridandomi la pace che mi davi,

da lunga ombra di cipresso annoso.

Se io, dirò parole di speranza,

di fede: non può perdersi un amore

da te a me, da me a te; ma viva

oltre la vita in un fluire eterno,

nuova creatura, spirito d’amore.

Chi di noi due sussurrerà nel vento? (mg).

***

L' ESTATE DI DICEMBRE

E' gradita l'estate di Dicembre...

Ma non illude il boccio della rosa

dagli orli secchi, e quasi senza odore

né il ronzante vagare del moscone

uscito al lieve tiepido del sole,

strano in mezzo a quel vuoto e a quel silenzio;

né il turgore di gemma su di un ramo

che tenta una precoce fioritura.

Vince l'inverno: nelle foglie secche,

al suolo a mucchi, ormai terrose e marce;

in quell'erba sottile che rispunta,

giallastra, senza forza di colore;

in quella luce d'alba senza aurora

del cielo, sgombro e solo, senza voli.

Non illude l'estate di Dicembre.

Ma è grata al cuore questa pausa breve

tra le piogge autunnali e le bufere

di vento, d'acqua e grandine o di neve

( se ne coglie nell'aria già un sentore).

E' un miracolo effimero, di vetro;

è fragile farfalla quest'estate

dai brevi giorni e dalle notti eterne.

Somiglia al nostro amore che s'attarda,

e non illude mentre ancora scalda:

ha visto primavera, estate e autunno,

ma sa che dovrà cedere all'inverno,

la stagione implacabile, che schianta,

e separa per sempre i cuori amanti...

Ma ancora c'è l'estate di Dicembre. (mg).

***

APPENDICE

UXORI MEAE.

Hoc monili,

tremida cum manu,

sed firmo corde,

- magistra docet! –

optimum diem natalem

tibi, dulcissima uxor,

ominatur

maritus tuus.

(c).

EPISTULA OMNIUM PULCHERRIMA

Verba quibus exordiar me deficiunt,

sed incipiam epistulam pulcherrimam

illarum quas composui, vel quas postea

scripura sum; et sit talis quae dicat;

quantus amor sit inter nos donatus,

vel cras donandus; at nihil necessest,

puto, mihi ut scribam quod iam scriptumst

pridem in foliis, quo modo Sibylla

illis responsa arcana ac dubia mandat.

Folia illa omnia rursus reperiemus

et rursus omnia in libro componemus:

hoc temporis iam acti, illud huius,

quod, heu!, fugit; atque futuri folia

occultius latent; sic erit difficile,

multis post annis, iterum reficere

sacrati amoris fulgida mysteria;

multa enim verba sunt ventorum praeda,

in pulverem iam versa, in lutum, in cinerem:

sed ea profecto mea non refert legere,

sed tantum satis est conari amantibus.

(mg).

FINE

NOTIZIE SUGLI AUTORI

Maria Giovanna Perroni Lorenzini e Carlo Lorenzini, che dal 1961 sono marito e moglie, sono nati lei ad Arcola (SP) nel 1938 e lui a Ortonovo (SP) nel 1935, si sono conosciuti all’Università di Pisa, si sono fidanzati e poi, una volta laureati in lettere classiche, si sono sposati, trasferendosi a Montepulciano (SI), dove hanno messo su famiglia e abitato. Hanno insegnato, dal ’61 agli anni ottanta, nelle Scuole Medie e nei Licei di Montepulciano: lei Latino e Greco; lui Italiano e Latino.

Soprattutto dopo essere venuti in pensione, si sono dedicati all’attività letteraria: poesia e prosa lei, prosa e poesia lui. Hanno partecipato a concorsi letterari, nell’ambito dei quali hanno vinto numerosi primi premi o comunque premi di prestigio. Entrambi hanno ottenuto il ‘Valentino d’oro’ a Terni. Ed entrambi hanno pubblicato libri.

Le principali pubblicazioni di Maria Giovanna Perroni sono: Il Diamante. Poesie. Ape. Terni. 1991; Il gioco del reale. Poesie. Nuove Seledizioni. Grizzana Morandi (BO). 1994; Il riso segreto. Poesie. Ape. Terni. 1995; Lacrime di gigli. Poesie. La CO.ME.TE. Ragusa. 1996; Sulla cima del cipresso. Poesie. DonChisciotte. San Quirico (SI). 2003; La pace delle bambole. Racconti. Ibiskos. Empoli (FI). 2002.

Maria Giovanna è anche presente in Antologie: in Autori Poliziani, oggi. antologia di prosa, poesia e arti grafiche. A cura dell’associazione culturale ‘il Borghetto’. Sinalunga. 1992; e in Scrittori e Artisti poliziani del 1996. DonChisciotte. San Quirico (SI). 1996.

Le principali pubblicazioni di Carlo Lorenzini sono:

Il ritorno di Ulisse. Racconti. Editori del Grifo. Montepulciano (SI). 1994.

Com’eravamo. Racconti. DonChisciotte. San Quirico (SI). 2007.

Anche lui è presente in Antologie: come Autori Poliziani, oggi e Scrittori e Artisti poliziani del 1996 citate; ovvero MicioAmico e gli altri animali. Ibiskos Ulivieri. Empoli (FI). 2008.

***

GABRIELE MORACHIOLI

per L’estate di dicembre

Il pittore Gabriele Morachioli, è nipote degli Autori. E’ nato a La Spezia nel 1959. E’ residente nel comune di Ortonovo. La sua formazione artistica deriva dai maestri del colore che lui ha frequentato nel Liceo artistico di Carrara. Infatti è pittore pieno di colore e di poesia. E’ artista schivo di concorsi, mostre e pubblicità. Crea per sé, con la gelosia tipica dei grandi; e per pochi amici. Fra cui gli autori. Da tempo è felice illustratore delle loro pubblicazioni.

Per Carlo Lorenzini ha realizzato la quarta di copertina de ‘Il ritorno di Ulisse’ e la copertina e i disegni interni di ‘Com’eravamo’., 2007.

Per Maria Giovanna Perroni Lorenzini ha realizzato la copertina, la quarta di copertina e i disegni interni de ‘Il riso segreto’, poesie, 1995; e le copertine de ‘La pace delle bambole’, racconti, 2002; e del volumetto di poesie ‘Sulla cima del cipresso', 2003.

Presentandolo brevemente in ‘Com’eravamo’, si diceva che il Morachioli nelle sue opere è “un creatore di atmosfere che attingono alla realtà; ma che sfumano nel sogno”. La rosa che adorna la copertina di questo volumetto, L’estate di dicembre’, lo conferma.

* * *

INDICE

Presentazione. Una cosa meravigliosa e Una chiave di lettura. 3

Titoli e amore (mg) e Un amore per una vita (c). 5

01 Perché (c) Preziosi ricordi (mg). 10

02 Noi e la neve (c) Tu dormi (mg). 11

03 ‘Per tutta la vita’ (c) Bianco inferno (mg). 13

04 Due pianti (c) Un fantoccio di pane (mg). 15

05 Nell’oliveto (c) Oggi non mi parlare (mg). 17

06 Incubo (c) Lettera a Carlo (mg). 19

07 I tuoi occhi ardenti e luminosi, sempre (c) Il tuo sorriso (mg). 20

08 Racconto (c) Non più (mg). 21

09 Come in una nuova Betlemme (c) Per un’ora soltanto (mg). 23

10 Il dolce tuo nome (c) Tre semplici parole. (mg) 24

11 Moglie e madre (c) Il mio lungo amore (mg). 25

12 Per un anniversario (c) A dirti ciò che sai (mg). 26

13 Buon Natale (c) L’amore più grande (mg) 27

14 Grazie di tutto (c) Insieme (mg). 29

15 Le mie pasticche e il tuo sorriso (c) Un Natale solitario (mg). 31

16 Quattro passi in un mattone (c) Spartire vecchiezza insieme (mg). 33

17 Le nostre cento e una primavere (c) Sussurri nel vento (mg). 35

L’estate di dicembre (mg). 37

APPENDICE

Uxori meae (c) e Epistula omnium pulcherrima (mg). 38

Notizie sugli Autori 39

Notizie su Gabriele Morachioli 40

Indice. 41

***